Attese ricompensate e speranze deluse al festival del jazz

A Saalfelden oggi è il giorno più lungo, si inizia la mattina e si finirà a notte fonda.

Il primo appuntamento è in piazza dove ci aspettano The Bulls Horn, un organico di nove musicisti al seguito del trombettista austriaco Lorenz Raab. L’ambiente sonoro è di energetica gioia collettiva e si presenta con la tipica musica della Plaza de Toros. Ancor una volta sono i fiati l’elemento maggioritario e i sette ottoni si confrontano con il sax della brava Lise Redler e la batteria di Harry Tanschek. Buona l’organizzazione dei suoni e apprezzabili gli interventi solistici. Il caldo dei Bulls Horn contrasta con la pioggia che comincia a cadere, abbassando vertiginosamente la temperature ed imbiancando le vette circostanti.

Dalla Plaza de Toros alla Piazzolata del brasiliano Renato Borghetti e il suo bandoneon, che ci fa respirare la festa e la malinconia dell’America latina. Sostenuto dalla chitarra di Daniel Sa’ la capace tastiera di Borghetti corre da una parte all’altra del cono sud del continente americano.

In tarda mattinata ci si ritrova nello spazio dei Short Cuts per il duo Steve Bernstein (trombe a pistoni e a coulisse) e Kenny Wollesen (batteria, percussioni, gong e vibrafono). Sulla qualità artistica del set non si discute per la capacità espressiva dei due musicisti e per la loro lunga frequentazione, legata al gruppo dei Sex Mob. Infatti il risultato di questo incontro è tra i più positivi, non solo perché abbiamo modo per l’ennesima volta di constatare la validità di questi artisti, ma anche di seguire il filo poetico di Bernstein alla ricerca di temi famosi del repertorio jazz o di traditional della tradizione neroamericana. La leggerezza e la fantasia con la quale ci viene ammanito questo patrimonio creativo dal trombettista trova un grande contributo nella precisa e lucida percussione del batterista che, avvalendosi del vibrafono, offre la base armonica per tenere ballad al compagno di ventura.

Dopo pranzo arriva la perla della giornata con gli Endangered Blood, quartetto di giovani campioni con Chis Speed ed Oscar Noriega ai sax e clarinetti ed una ritmica fatta di Jim Black alla batteria e Trevor Dunn al basso.

Il sound è trascinante, solare, costruito su ritmi impossibili che solo una Rithm Machine quale quella di Black-Dunn può sostenere con potenza. Su questo tappeto d’acciaio intervengono le voci dei solisti per esaltare le possibilità di beat di ogni frangente musicale. Ma questa carica vitale non soffoca un intenso lirismo emergente sia dai temi portanti che dalle interpretazioni solistiche. Un filo rosso che ci riporta alla meglio gioventù di una certa avanguardia americana, dove il fare jazz viene affrontato nella sua espressione più pura e meno contaminata: una sorta di anima post bop preso e plasmato alla luce delle intuizioni colemaniane. Davvero emozionante il Misterioso monkiano con cui il gruppo ha salutato un pubblico più che soddisfatto.

C’è appena il tempo di correre al Main Stage che inizia il programma del grande teatro con l’ Ingebrigt Haker Flaten Chicago Sextett, gruppo con all’interno artisti più che riconosciuti come Dave Rempis al contralto-baritono. I brani sono costruiti in un crescendo collettivo, fortemente impastati dal vibrafonista Jason Adasiewicz e dal chitarrista Jef Parker. A capo della schiera musicale il violino di Ola Kvemberg e lo stesso Rempis. Pur presentando momenti di qualità improvvisativa, il gioco generale sembra smarrirsi nel suo stesso sentiero, con un sfrangiamento espressivo che disperde la continuità emotiva, facendo del gruppo una macchina troppo appesantita nella sua orchestrazione.

Fiato alle trombe per l’arrivo di Marshall Allen, antico pilastro dell’orchestra di Sun Ra, uno che con i Gilmore e i Patrick ha costituito, per dirla con le parole di Le Roy Jones, la più importante big band del free jazz.

Giusto dunque l’affetto con cui la platea ha accolto l’ormai ottantasettenne saxofonista. Con lui giovani turchi dalle belle speranze e poco di più. Un set triste che fa capire perché, come dice il saggio, è sempre meglio ricordare i propri eroi sempre giovani e belli. Di quegli anni altro non è rimasto che un cappello fatto di mille specchietti che riflettono colorati sotto i riflettori. Il resto è silenzio (magari…). Comunque chapeau, anche se di strass, per chi ha osato dare l’assalto al cielo astrale dello “Space is the Play!”.

A seguire il Lorenz Raab Expanded, capitanato dall’omonimo trombettista austriaco coadiuvato da Eirik Hegdal -al saxofono e L ucas Niggli alla batteria. Il sound è ben costruito e l’innesto nel gruppo di Michel Godard alla tuba garantisce una nota di classe che nobilita l’intero set. Tra le altre cose il pubblico ha seguito con interesse l’intervento del francese al serpentone, strumento assai raro nell’uso e di cui Godard è maestro.

Il tempo di una veloce cena ed arriva sul palco Trank Zappa Grappa in Varese? Un quartetto dal nome intrigante dove c’è di tutto e di più per accendere le aspettative. Ma è solo questo: un gioco di parole degno delle domande bizzarre della Settimana Enigmistica. Rimane solo la stizza di avere visto le Mothers of Invention usate come esca per un pubblico affamato di eterodossia musicale.

A fare tornare la musica in sala ci pensa il David Ware’s “Planetary UnKnown”. Siamo immersi in una integrale atmosfera new thing interpretata da alcuni suoi storici adepti: oltre al tenore di Ware, la multiritmicità della batteria di Muhammad Ali, il contrabbasso di William Parker, grande guru del genere, e il piano di Cooper Moore. La musica espressa è densissima, senza un attimo di tregua, solo distesa da un bel assolo di Parker all’archetto, ma subito ripresa dal barrito, in vero un poco stanco, di David Ware. Ali canta melopee di un Africa perduta mentre cerca i tamburi del suo coloratissimo drumming. Veramente bravo Cooper che alla tastiera a volte “stride” compie quella necessaria continua ritessitura tra l’avanguardia anni ’60 e la tradizione che l’ha preceduta.

Chiude la lunga giornata un gruppo classicamente blues, l’Electric Willie, sestetto organizzato da quel genio delle corde che è Elliot Sharp, un re Mida dei vari generi musicali che incontra. Infatti anche su questo terreno della classicità neroamericana l´artista esalta la sua chitarra in suoni che spaziano sal Chicago style fino al blues più legato ai primi rock & roll degli anni ’50.

Le voci sono quelle di Eric Mingus, ancora una volta bravo anche se sempre un po’ sopra le righe e della cantante Tracie Morris, dalla voce non particolarmente personale. Ottima anche la seconda chitarra di Henry Kaiser, perfetto contraltare per le invenzioni di Sharp.

Il giorno più lungo è finito: molte ombre illuminate da grandi momenti di musica.