«Tutte le attività sotto il nome di Pkk sono terminate». È questo che si legge nel documento in cui il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, il Pkk appunto, ha comunicato il risultato del congresso tenuto a inizio maggio in cui ha deciso di sciogliere la struttura organizzativa e porre fine alla lotta armata.
Il Pkk dà così seguito all’appello lanciato dal suo fondatore, Abdullah Ocalan (detenuto da 26 anni nel carcere turco di Imrali), a febbraio scorso, quando chiedeva proprio lo scioglimento del partito e la fine della lotta armata per giungere a una soluzione politica e non militare del conflitto pluridecennale con Ankara.
Negli intenti del Pkk è presente anche il disarmo in tre fasi, vigilato dall’Onu, e la possibilità che sia lo stesso Ocalan a condurre la nuova fase politica, ma fuori dal carcere.
«Il 12° Congresso straordinario – si legge nel documento – ha valutato che la lotta del PKK ha smantellato le politiche di negazione e annientamento imposte al nostro popolo, portando la questione curda a un punto in cui può essere risolta attraverso la politica democratica. Ha concluso che il PKK ha compiuto la sua missione storica. Su questa base, il 12° Congresso ha deciso di sciogliere la struttura organizzativa del PKK e di porre fine alla lotta armata, con il processo di attuazione che sarà gestito e guidato dal leader Apo [Abdullah Öcalan]. Tutte le attività condotte sotto il nome del PKK sono state quindi terminate».
Il Pkk si scioglie e cessa la lotta armata: come leggere la vicenda?
A sinistra, in Italia, tra i simpatizzanti della causa curda si è sviluppato un dibattito tra chi considera quella del Pkk una svolta e chi la considera una resa.
Ai nostri microfoni il giornalista turco Murat Cinar consiglia anzitutto di non giudicare con lenti occidentali le dinamiche di altri Paesi e altri popoli in altre parti del mondo.
«Quella del Pkk però non è una scelta nuova – ricorda Cinar – visto che era stata proposta dal 1999».
Il giornalista sottolinea che la mossa del Pkk è dettata anche dall’estremo cambiamento che si registra sul piano interno, regionale, geopolitico e mondiale.
«Le condizioni attuali non sono le stesse del 1978, quando il Pkk fu fondato – sottolinea Cinar – Ci sono cambiamenti enormi in Siria, ma anche in Iraq. C’è l’aggressione di Israele, con il genocidio in Palestina, sta forse cominciando l’accerchiamento dell’Iran che potrebbe forse sfociare in un futuro conflitto, c’è la nuova politica estera di Donald Trump». Tutti elementi, dunque, che evidentemente hanno giocato un ruolo nelle riflessioni durante il congresso del partito fondato da Ocalan, fino a giungere alla decisione finale.
Decisione che, come si evince dal comunicato stesso, non comporta tuttavia la fine della lotta. Se infatti finisce quella armata, ciò che il Pkk afferma è che cesserà le attività con quella sigla, mentre le battaglie proseguiranno in altri modi, con altri nomi e altri strumenti.
«Ciò che ha fatto il Pkk nei confronti della Turchia è mettere la questioni nelle mani dello Stato», sottolinea il giornalista. Anche in passato il tentativo era stato effettuato, ma la proposta non era stata raccolta.
Ma la Turchia di Erdogan è interessata a raccogliere la proposta di una pacificazione avanzata dal Pkk? «Questo è l’interrogativo su cui abbiamo poca fiducia», sottolinea Cinar, che elenca tutta una serie di cambiamenti che la Turchia stessa dovrebbe affrontare.
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