I referendum su lavoro e cittadinanza non hanno raggiunto il quorum. La percentuale dei votanti ha superato di pochi decimi il 30% degli aventi diritto, ben lontana dalla soglia del 50%+1 necessaria per la loro validazione.
Nonostante i tentativi dei partiti di centrosinistra di vedere il bicchiere mezzo pieno con la constatazione che alle urne si sono recati più elettori di quelli che hanno permesso a Giorgia Meloni di andare a votare, le condizioni materiali derivanti dall’abrogazione delle leggi oggetto dei quesiti referendari non cambieranno.

Niente quorum al referendum: che ne sarà dei diritti del lavoro e della cittadinanza?

Sono tante le analisi che vengono prodotte in queste ore, tanto sullo strumento del referendum col quorum in epoca di disaffezione dalle urne, quanto su questioni più politiche che riguardano, tra le altre cose, l’invito all’astensione di importanti cariche istituzionali, l’opportunità di proporre una consultazione di questo tipo in un momento storico come quello attuale e a molta distanza temporale dall’approvazione delle leggi che si volevano abrogare.

Non sono mancate ovviamente le reazioni politiche, da quelle della destra al governo, che ha esultato per il flop e lo ha definito una sconfitta della sinistra, passando per Matteo Renzi, l’autore del Jobs Act, che aveva definito ideologici i quattro quesiti sul lavoro e ora rivendica un peso maggiore delle proprie istanze negli equilibri del centrosinistra, fino ai cosiddetti riformisti, la minoranza interna al PD, che dopo aver disatteso con dichiarazioni pubbliche le indicazioni di voto del partito ora criticano la segretaria Elly Schlein per essersi imbarcata in un’avventura dagli esiti negativi prevedibili.

Sono tante le domande che si affastellano dopo il mancato quorum ai referendum, prima fra tutte come si deve leggere la diserzione delle urne.
«È una conferma alla disaffezione politica – commenta ai nostri microfoni Pier Giorgio Ardeni, docente di Economia politica all’Università di Bologna – C’è una distanza crescente tra il ceto politico e la società civile, indipendentemente dal tipo di consultazione. I quesiti referendari riguardavano soprattutto i ceti popolari, il lavoro dipendente e quello salariato precario, che sono però quelle fasce sociali che sono state più abbandonate dalla politica. Ci sono persone che non si sentono più di partecipare a questo gioco politico che di fatto non li riguarda, perché in questi anni le proposte politiche in questi anni si sono molto assomigliate, dall’ultraliberismo della destra al liberismo in salsa liberal del centrosinistra».

La crisi grave della democrazia, che nell’appuntamento elettorale ha avuto l’ennesima dimostrazione ieri, secondo Ardeni deriva da una crisi della proposta politica.
Ma a questo punto, andando sui temi dei quesiti referendari, dobbiamo aspettarci che il mancato quorum ai referendum rappresenti una pietra tombale sui diritti del lavoro?
«No, nel senso che la lotta si può sempre fare, anzi sarebbe auspicabile che dopo questa mobilitazione la lotta diventasse più forte, anche più “cattiva – commenta il docente di Economia politica – Dovrebbe farsi sentire sui luoghi di lavoro, con gli scioperi, con le manifestazioni e non solo la lotta nei salotti delle televisioni, poi alle urne, ma una lotta vera che poi si traduce in proposta politica».

ASCOLTA L’INTERVISTA A PIER GIORGIO ARDENI: