Un ritratto romantico di un passato che oggi è sepolto dalle macerie e dalla storia. Raffaele Salinari, presidente della ong Terre des Hommes, dalle pagine del Manifesto racconta la Kathmandu degli anni ’60, meta del “viaggio illusorio” di una generazione in cerca di un mondo alternativo.

La conta dei morti in Nepal non si arresta, e la capitale Kathmandu è un cumulo di macerie dal quale si continuano a estrarre corpi. La serie di terremoti degli ultimi giorni ha colpito 6,6 milioni di persone, e oltre un milione sono rimaste senza tetto. E mentre la cronaca ci riporta uno scenario spaventoso di un paese in ginocchio, c’è chi, come Raffaele Salinari, ha voluto ricordare cosa è andato perduto a causa del sisma, oltre a un’incredibile quantità di vite umane e a un patrimonio storico unico. Dalle pagine del Manifesto , Salinari racconta cosa rappresentava Kathmandu negli anni ’60, per chi intraprendeva quel “viaggio illusorio” lasciandosi alle spalle la cultura occidentale, per attingere all’essenza spirituale di una civiltà ai confini del mondo.

Parliamo di una generazione, quella della beat generation, alla ricerca di un ampliamento della coscienza – spiega Salinari ai nostri microfoni- Generazione legata a una poetica alternativa, a culture lontane come quelle appunto del lontano Oriente. E si andava alla ricerca di un’alternativa a un mondo che già negli anni sessanta si stava commercializzando. Una generazione che non credeva al materialismo storico, o anche al determinismo di stampo marxista. Si pensava che la strada da cercare dovesse essere più personale, più intima, e si cercava l’illuminazione attraverso le droghe“.

La dimensione del viaggio, dunque, interiore ed esteriore, la ricerca di un “trip” come vettore per trovare un nuovo Sé e arrivare a una “liberazione personale e collettiva. La meta ultima di tutto ciò era Kathmandu – continua Salinari – che negli sessanta era un posto difficilmente raggiungibile, se non via terra. Non c’erano automobili, a stento si girava in bicicletta. Non si “andava” semplicemente a Kathamndu, ci si “arrivava”. Un percorso attraverso un mondo completamente diverso, la Jugoslavia di Tito, la Grecia dei Colonnelli, la Turchia governata all’insegna di un proibizionismo ferocissimo. E poi si attraversavano nazioni che oggi non esistono più come le abbiamo conosciute negli anni sessanta: penso alla Persia dello Sciah, completamente diversa dall’Iran di oggi, all’Afghanistan, al Pakistan, all’India di allora. Kathmandu era poi un enorme tempio dove traspariva spiritualità da ogni cosa“.

“Si cercava qualcosa che era dentro di noi – conclude Salinari – qualcuno l’ha trovata, molti si sono persi. La memoria collettiva di quegli anni rimane l’idea di un mondo alternativo, di una ricerca spirituale innestata su una ricerca politica”.