Ai mafiosi importano due cose: soldi e territorio. Solo a Palermo si trova il 40% dei beni sequestrati alla mafia per un valore di 30 miliardi di euro. Immobili, negozi e aziende che prima di essere confiscati definitivamente vengono affidati agli stessi amministratori giudiziari che in pochi anni, invece di farli fruttare, li portano al fallimento. 

Ai mafiosi importano due cose: i soldi ed il territorio. A dirlo quasi quarant’anni fa fu Pio La Torre, un politico palermitano che capì per primo che per combattere la mafia non serviva tanto mettere i suoi capi in prigione, ma occorreva più che altro “fotterli i soldi”. Toglierli quanto di più caro avevano, il territorio ed i loro imperi macchiati di sangue.
Oggi solo a Palermo vi è la metà dei beni sequestrati alla mafia in tutta Italia per un valore complessivo di più di 30 miliardi di euro. Una montagna di ricchezza in senso astratto che, però, come da un paio anni denuncia Pino Maniaci, direttore dell’emittente Telejato, sta letteralmente marcendo “per colpa della mafia dell’antimafia”.

Grazie alla legge Pio La Torre – Rognoni del ’82 e alla legge 109 del ’95, oggi è consentito non solo il sequestro e la confisca di tutti i beni che sono passati per mani mafiose, ma anche il loro utilizzo dal punto di vista sociale, grazie al lavoro di Libera. Un modo per restituire ai cittadini ciò che li è stato sottratto con la forza, ridandogli una nuova vita. Questa volta legale.

Quando però un bene viene posto sotto sequestro, prima di essere confiscato definitivamente, occorre essere sicuri della sua provenienza, se illecita o meno, ed è qui che entrano in gioco gli amministratori giudiziari, denunciati più volte dal giornalista Maniaci. “Nella maggior parte dei casi questi beni, che dovrebbero esser gestiti mantenendo lo stesso livello precedente il sequestro, vengono fatti fallire prima di arrivare alla definitiva confisca” spiega il direttore di Telejato.

Ad occuparsi di aziende, case, negozi e strutture sequestrati alla mafia siciliana, è il tribunale di Palermo che gestisce la maggior parte dei beni, affidandoli ad amministratori che di business ne capiscono ben poco. “Cito il caso di Castelvetrano dove c’era un impero di supermercati, gestito tutto da mafiosi, consegnato solo sei anni fa ad alcuni amministratori giudiziari che sono riusciti a farlo fallire. Parliamo di un business da 700 milioni di euro. Si tratta di un sistema che non funziona: non possiamo affidare un supermercato ad un laureato in legge perché non né capisce nulla di come funziona l’economia” continua Maniaci che in questi mesi sta cercando di diffondere sempre di più la sua inchiesta per denunciare quanto sta avvenendo in Sicilia. Da poco è stato anche audito dalla Commissione regionale antimafia che, grazie anche al giornalista, si è decisa da poco ad aprire un dossier in cui verranno raccolti dati e denunce sulla scorretta amministrazione giudiziaria dei beni sequestrati, che spesso vengono gestiti sempre dalle stesse persone.

“La stessa Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, gestisce con altri 3 o 4 giudici il 43% di tutto il patrimonio mafioso sequestrato in Italia, ma nonostante ci siano in attesa 4000 richieste per essere assunti come amministratori giudiziaria, la Saguto sceglie sempre di affidare case e aziende sequestrate alle stesse persone. Come Capellano Seminara, tra i più ricchi avvocati d’Italia, che ha fatto fallire il 90% delle aziende che gli sono state consegnate” conclude Maniaci che spiega come a dover essere cambiata sia la stessa legislazione Antimafia.

Alcuni passi però, da quando il direttore di Telejato è stato ascoltato dalla Commissione, ne sono stati fatti. Intanto Umberto Postglione, direttore dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, ha da poco avanzato la proposta di risolvere l’emergenza abitativa nel Sud Italia, rimettendo sul mercato le migliaia di immobili sequestrati. “Ma ancora questo non basta – aggiunge Maniaci -, noi puntiamo ad arrivare in Parlamento con la nostra inchiesta“.

Francesca Candioli