Dopo il successo del film -opera andato in onda in 1° visione il 10 marzo 2021, Adriana Lecouvreur, nuova produzione del Teatro Comunale di Bologna, per la regia di Rosetta Cucchi e la direzione di Asher Fish, debutta finalmente con il pubblico presente nella sala del Bibbiena, presentando una convincente riflessione sull’essenza del teatro e dell’amore.

Assistere a quest’opera in teatro dopo la visione televisiva in pieno lockdown è un tripudio di emozioni, non solo per la felicità di sentire le voci dei cantanti dal vivo archiviata l’orgia di ascolti on line, ma per una serie di motivi che hanno a che fare con l’essere investiti dalla potenza di suono dell’orchestra mescolata alle voci nei fortissimo seguiti da subitanei e sconvolgenti silenzi della partitura di Francesco Cilea e con il brio e la leggerezza dell’azione scenica che mai s’arresta rendendo perfettamente l’idea, soprattutto nel primo e nell’ultimo atto, della coincidenza, per Adriana, tra vita e teatro.

La regia di Rosetta Cucchi è entusiasmante, ogni scelta persuade: i movimenti d’insieme così come la gestualità dei solisti; il cambio d’epoca ad ogni atto e quindi cambio di stile dei costumi (notevoli, di Claudia Pernigotti) e della scenografia (efficace, dinamica a cura di Tiziano Santi), questa impostazione registica, ponendosi in un contesto metateatrale, risulta appropriata ed efficace.

Incanta il primo atto ambientato nella Parigi del 1730, incanta per la piacevolezza della partitura, per il dipanarsi della trama, la scoperta una ad una delle voci degli e delle interpreti nel rapido scambio di battute tra i componenti della compagnia teatrale, dietro le quinte, mentre aspettano di andare in scena, insieme a qualche spettatore di riguardo e al direttore di scena Michonnet. I dialoghi non si arrestano mai in un continuo cicalecciare sospeso solo quando Adriana Lecouvreur, per esercitarsi, recita alcuni versi della Bajazet di Racine, declamandolo, non cantandolo. In questo primo atto si assiste alla vera vita della gente di teatro presa dal panico prima di andare in scena, mente in un altro spazio, oltre un sipario, ci sono altri attori, interpretati dagli e dalle allieve della Scuola di Teatro Alessandra Galante Garrone in veste di mimi/e, che danno vita ad uno spettacolo, per la precisione una tragedia, per un altro pubblico come di un’altra realtà. Nella realtà appartenente al pubblico del Teatro Comunale di Bologna, quest’ultimo interrompe con gli applausi il flusso musicale diverse volte con sinceri apprezzamenti sia rivolti a Sergio Vitale (Michonnet), che a Luciano Ganci (Marurizio), ma soprattutto a Kristine Opolais (Adriana Lecouvreur) al termine di “Io son l’umile ancella“, mentre nell’altro palcoscenico, ove la vediamo recitare di spalle, Adriana mette tutta la sua arte per far colpo sull’uomo che ama, Marurizio, che la guarda da un palchetto. Nel frattempo un altro uomo, Michonnet, commenta per noi, cantando, la sua performance artistica, descrivendone la bravura con l’emozione di chi non solo ammira, ma ama.

Splendida questa scena di teatro nel teatro, di commento del talento dell’amata Adriana mentre la vediamo, in controluce, di spalle, ammantata di uno stupendo costume, perfetto per interpretare un Racine del gran teatro del ‘700 francese, prima della chiusura del primo atto con l’invasione del palcoscenico da parte di tutti gli “attori” della compagnia per essere invitati alla festa del Principe di Boubillon, occasione per mostrare la meraviglia, prima solo intravista dietro quel sipario ulteriore, dei costumi dell’unicorno e di altri soggetti fantastici, perfetti per rappresentare l’incantamento che doveva ammaliare il difficile pubblico parigino dell’epoca, facile alla noia, che voleva essere sorpreso da una serata a teatro.

Il secondo atto comincia con un passionale preludio che aiuta ad empatizzare con la Principessa di Boubillon, interpretata con grazia ed impeto da Veronica Simeoni, sola nel “Nido”, una villa di campagna, in attesa dell’amante e ansiosa. Il pubblico ad apertura di sipario si è ritrovato in uno scenario ottocentesco e in un classico triangolo amoroso da trama d’opera ottocentesca. Nel corso dell’aria “acerba voluttà” l’ansia della Principessa si stempera nella dolcezza della notte e soprattutto nella struggente e coinvolgente melodia. All’arrivo di Maurizio la scenografia aiuta fortemente il movimento scenico dei personaggi con la divisione dello spazio tra un salottino borghese e una piccola anticamera con un tavolino, due ambienti separati da una parete ed una porta. I due ambienti ospiteranno le due diverse indoli, due diversi modi di intendere la vita e l’amore l’una sente il fremito d’amor e l’altro pensa alla gloria. Il duetto è musicalmente elettrizzante per i continui crescendi e diminuendi e i silenzi orchestrali che lasciano sole le voci improvvisamente per brevi e rapidi recitativi in uno stile che denota grande modernità.

Poco più tardi gli stessi ambienti ove i due amanti hanno duettato, nuovamente ospiteranno due differenti modi di amare lo stesso uomo. Da un lato si troverà la Principessa, non veduta, al di là della porta Adriana cercherà di aiutarla a fuggire perché non abbia a perdere l’onore dopo il suo convegno segreto, pur senza conoscere l’identità della donna che sta aiutando e pur sapendo che ama il suo adorato Maurizio. I differenti caratteri delle donne vengono evidenziati anche dai colori dei rispettivi sontuosi abiti da grand opéra, l’uno bianco, della nobildonna e l’altro viola, come ogni altro abito indossato da Adriana in questo allestimento, con l’eccezione del costume dell’ultimo atto, nero, a richiamare la moda degli esistenzialisti parigini del ‘900.

Nel secondo atto spicca anche il dialogo tra Maurizio, Il Principe e l’Abate di Chazeuil: tutto sembra volgersi in dramma con un’imminente duello tra i due gentiluomini con tensione crescente, musicale e fisica degli interpreti. La comicità degli interventi di Gianluca Sorrentino, ovvero l’Abate, cambiano il clima e Romano dal Zovo, (nei panni del Principe) con pochi accorti gesti di superiorità riesce a far intendere quanto poco gli importi duellare preferendo rivalersi gettando Maurizio in guai peggiori, tra le braccia di una nuova amante.

Nel terzo atto siamo alla festa del Principe, tuttavia sebbene nella storia siano passate poche ore dallo spettacolo del primo atto, sembrano passati duecento anni di storia visto che all’apertura di sipario ci troviamo in un locale parigino del 1930 con la proiezione di film dei Fratelli Lumière con tanto di proiezione de “L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat” del 1896 insieme a spezzoni di altre pellicole del cinema muto. Le citazioni della Ville Lumiere sono molte mentre monta la tensione tra le due contendenti all’amore di Maurizio. Al centro palco viene posizionata una gigantesca mela della discordia dorata, da un lato Adriana e dall’altro la Principessa, nessuna di loro deve essere scelta come la bella Elena, qui ci sono due donne nuove, donne che scelgono le loro vite e i loro percorsi, capaci di assumersi i rischi di ogni scelta.

Se il rischio viene esemplificato dal numero circense con i tessuti eseguito con eleganza dall’acrobata Davide Riminucci, il destino finale di Adriana, come agnello sacrificale, viene anticipato registicamente nell’abbraccio da parte di una specie di angelo della morte, la danzatrice Luisa Baldinetti che interpreta la famosa Loïe Fuller, la quale danza nel locale mente l’attrice recita il suo monologo tratto da Fedra di Racine. Come usava fare Fuller, la danzatrice, indossa una tunica serpentiforme e rotea, amplificando la sua figura con bacchette inserite nelle maniche dell’abito bianco. La scena parlata di Kristine Opolais, contrappuntata dalla danza, è potentissima, nonostante la dizione italiana della cantante non sia chiarissima proprio nel parlato (nel cantato è impeccabile invece), e anche se in un teatro di prosa risulterebbe estremamente declamatoria.

Il sipario si riapre nel 4° atto su di un palcoscenico di un teatro parigino del 1968. Sul fondo leggiamo una frase “Les temps est une invention des gens incapables d’aimer”. Adriana è piegata su se stessa, incapace di lavorare perché la pena d’amore la sfinisce. Riconosce che la carriera è ormai per lei un “disinganno”. Solitudine, esistenzialismo, riferimento all’intimismo della Nouvelle Vague, mentre fuori c’è la contestazione. Gli artisti della compagnia sono di ritorno da un momento di festa: una manifestazione con tanto di cartelli inneggianti alle libertà. Ma Adriana ha finito il suo tempo, non può immaginare un futuro utopico, può solo illudersi di riabbracciare l’uomo che ama mentre il veleno le annebbia la mente.

Intrigante la scelta di lasciare Maurizio a cantare fuori scena e di farlo apparire solo in video, sullo sfondo, in immagini spesso sfocate, come fossero annebbiate dalla droga, dal veleno. Adriana dovrebbe infatti abbracciare per l’ultima volta il suo Maurizio, ma una bella intuizione della regista Rosetta Cucchi ha fatto comunque funzionare la scena, facendo in modo che Adriana stringa realmente a sé il direttore di scena, Michonnet, l’uomo che da sempre l’ama in silenzio soffrendo, non ricambiato. Nella sua testa Adriana vede e sente Maurizio morendo tra le sue braccia. Altresì Michonnet realizza il suo sogno di averla per sé, anche se nell’attimo della morte, nel bacio d’addio.

Poco prima che cali il sipario definitivamente sulla vicenda, si riaffaccia il tema dell’indistinguibilità tra la vita e l’arte di Adriana: più la voce di Maurizio l’incalza offrendole un trono più lei ribadisce che la sua vita è l’arte, “è un palco il mio trono, e un falso altar”. Non può essere messa su nessun piedistallo tutto è di cartapesta, tutto è illusione se pure anche così reale, fatto di carne e sangue e ci si gioca l’esistenza.

La regia è davvero encomiabile, giova senz’altro il fatto che Cucchi unisce alte competenze musicali e registiche e non lascia nulla al caso, ogni elemento della trama è ben evidenziato, ogni battuta del testo o momento musicale è tradotto in gesti, sguardi, in simboli, riferimenti extratestuali, tanti piani diversi s’intersecano e fanno sì che la componente spettacolare e quella musicale si trovino a dare vita a una rappresentazione di livello altissimo.

Dal lato musicale la partitura sorprende per la sua forza e modernità, il direttore Ascher Fisch riesce a far risaltare le melodie principali che frequentemente tornano, se pur in brevi frammenti, e a emozionare con i con i rapidi cambi di pieno e vuoto orchestrale oltre al mescolarsi di canto e declamazione in diversi momenti importanti già richiamati.

Complessivamente l’opera, anche dal vivo, mantiene una tensione cinematografica, travolge e sorprende proprio per l’intreccio dei piani di lettura del libretto e della partitura fatta da tutto il gruppo di lavoro che ha portato sul palco il canto, la danza, il cinema, il circo, la musica strumentale, il teatro di prosa, la politica, la storia insieme ad una meta riflessione sul teatro e sull’amore.