È incostituzionale il divieto per la madre intenzionale di riconoscere come proprio il figlio nato in Italia da procreazione medicalmente assistita (pma) legittimamente praticata all’estero. Lo ha stabilito la Corte costituzionale, con la sentenza depositata oggi, che ha ritenuto fondate le relative questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Lucca.
«Questa sentenza di fatto riconosce a livello costituzionale che la famiglia è di più di quello che gli ultraconservatori vorrebbero che fosse riconosciuto», commenta ai nostri microfoni Gabriele Piazzoni, segretario nazionale di Arcigay.
La sentenza della Corte costituzionale sul riconoscimento del figlio nato da procreazione assistita
La Corte – dopo aver precisato che la questione non attiene alle condizioni che legittimano l’accesso alla procreazione assistita in Italia – ha ritenuto che l’attuale impedimento al nato in Italia di ottenere fin dalla nascita lo stato di figlio riconosciuto anche della donna che ha prestato il consenso alla pratica fecondativa all’estero insieme alla madre biologica non garantisca il miglior interesse del minore e costituisca violazione dell’articolo 2 della Costituzione, per la lesione dell’identità personale del nato e del suo diritto a vedersi riconosciuto sin dalla nascita uno stato giuridico certo e stabile; dell’articolo 3 della Costituzione, per la irragionevolezza dell’attuale disciplina che non trova giustificazione in assenza di un controinteresse di rango costituzionale; dell’articolo 30 della Costituzione, perché lede i diritti del minore a vedersi riconosciuti, sin dalla nascita e nei confronti di entrambi i genitori, i diritti connessi alla responsabilità genitoriale e ai conseguenti obblighi nei confronti dei figli.
Il mancato riconoscimento fin dalla nascita – con procreazione medicalmente assistita – dello stato di figlio di entrambi i genitori lede il diritto all’identità personale del minore e pregiudica l’effettività del suo «diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni», ha affermato la Corte costituzionale. Inoltre, il mancato riconoscimento del figlio pregiudica «il suo diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale».
La dichiarazione di illegittimità costituzionale si fonda su due rilievi: la responsabilità che deriva dall’impegno comune che una coppia si assume nel momento in cui decide di ricorrere alla procreazione assistita per generare un figlio, impegno dal quale, una volta assunto, nessuno dei due genitori, e in particolare la cosiddetta madre intenzionale, può sottrarsi. Il secondo rilievo è che la centralità dell’interesse del minore, affinché l’insieme dei diritti che egli vanta nei confronti dei genitori valga, oltre che nei confronti della madre biologica, nei confronti della madre intenzionale.
Il tribunale di Lucca aveva sollevato questione di legittimità, rifacendosi al monito della Corte costituzionale che nel gennaio 2021 aveva invitato il Parlamento a intervenire sul tema ritenendo «non più tollerabile il protrarsi dell’inerzia legislativa»: con un’ordinanza aveva trasmesso gli atti alla Consulta perché si pronunciasse sulla legittimità degli articoli 8 e 9 della legge 40/2004 e dell’articolo 250 del codice civile laddove «impediscono l’attribuzione al nato dello status di figlio anche alla madre intenzionale» e non solo a quella biologica.
La causa riguardava il riconoscimento della “bigenitorialità piena” da parte di due donne su un figlio nato con procreazione medicalmente assistita ma, scrive il tribunale, «risente di rilevanti lacune normative» ed in altri casi simili la questione «è stata risolta diversamente in giurisprudenza, registrandosi un orientamento maggioritario contrario ed un orientamento minoritario favorevole al riconoscimento della cosiddetta maternità intenzionale».
La vicenda risolve così anche una battaglia politico-giuridica innescata dall’insediamento del governo Meloni, quando alcuni territori, su mandato del Viminale, iniziarono a bloccare la registrazione anagrafica dei figli nati all’estero da famiglie omogenitoriali.
Per l’occasione si registrò anche una sorta di disobbedienza civile da parte di alcuni Comuni, che hanno disatteso la circolare del ministro Matteo Piantedosi continuando a registrare all’anagrafe entrambe le madri dei figli nati all’estero da procreazione assistita.
«Ora, però, è il momento di andare oltre – osserva Piazzoni – è urgente riformare la Legge 40, rimuovendo il divieto di accesso alla pma per le coppie di donne e le persone single. Una limitazione che non ha più alcuna giustificazione, se non quella di perpetuare una discriminazione inaccettabile».
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