Il dibattito in corso su bufale, post-verità e falsità dei media ricorda le discussioni in cui tutte le parti in causa hanno una parte di ragione e una parte di torto, ma nessuno centra il punto. La soluzione non passa dalle leggi-bavaglio o dai tribunali del popolo, ma dall’istruzione e dal ruolo attivo dei cittadini, che invece sembrano fomentare l’informazione-spazzatura.

Il dibattito politico di questi giorni – incentrato su bufale, post-verità, giurie popolari e falsità dei media – assomiglia a quelle discussioni nei bar dove si ha l’impressione che i due contendenti abbiano entrambi ragione e contemporaneamente entrambi torto. In altre parole, nessuno sembra centrare il punto dei problemi che esistono e, men che meno, individuare una possibile soluzione.

BUFALE E POST VERITÀ
Il problema delle bufale – o della post-verità – diffuse sul web esiste e può rappresentare davvero un pericolo, dal momento che credere a delle menzogne può condizionare l’orientamento dell’opinione pubblica, fino a conseguenze estreme come portare ad esprimere un voto sulla base di false credenze o, ancor peggio, fomentare intolleranza e discriminazioni.
Il campo da gioco per la diffusione di false notizie è rappresentato dai social network, che ormai tutti considerano un irrinunciabile strumento di comunicazione. A differenza delle logiche che dovrebbero guidare le testate giornalistiche (e anche qui il condizionale è d’obbligo, come vedremo in seguito), cioè l’attendibilità e la verità, le piattaforme come Facebook seguono dichiaratamente criteri commerciali e gli stessi meccanismi e algoritmi su cui sono impostati non tengono in alcuna considerazione la qualità o la veridicità. È il marketing che ha monopolizzato la comunicazione, scalzando l’informazione.

Il gioco, però, funziona per una ragione, molto semplice quanto grave, chiamata “analfabetismo funzionale”. L’incapacità di una parte maggioritaria della popolazione di comprendere un testo scritto di media lunghezza, unita all’assenza di conoscenze per distinguere l’attendibilità di una fonte e all’abitudine, inseguita da quasi tutte le testate italiane, di privilegiare la quantità alla qualità, di giocare sul tempo invece che sulla completezza dell’informazione, rendono il lettore un soggetto distratto – che nella quasi totalità dei casi si ferma al titolo di un articolo, spesso senza nemmeno guardare il nome del sito che lo ha pubblicato – e al tempo stesso, proprio grazie a questa ignoranza, un veicolo fenomenale di diffusione di bufale.

Gli autori delle fake news, del resto, sono abili conoscitori dei meccanismi dei social network e di quelli psicologici che portano le persone a condividere un contenuto. Non è un caso se gli esperti di marketing hanno definito Facebook e simili come “vanity metrics”, misuratori di vanità.
Mediamente le persone utilizzano i social network come una piazza pubblica per esprimere i propri pensieri – originali o meno che siano – nella dimensione virtuale come non farebbero probabilmente mai in una situazione reale. L’egocentrismo è amplificato all’eccesso e, per quanto riguarda l’informazione, vengono condivisi e apprezzati contenuti che rafforzano quella che è già la propria idea. Difficilmente ci si avventura sui social network alla ricerca di tesi opposte alle proprie e, se lo si fa, lo scopo è quello di denigrare l’avversario, non certo di misurarcisi e confrontarcisi.
In questo modo, confezionando ad hoc bufale su temi caldi, come ad esempio l’accoglienza dei migranti o altri temi razzisti e populisti, gli autori sanno che i propri contenuti diventeranno presto virali.

Nella redazione di Radio Città Fujiko questi argomenti sono stati spesso oggetto di confronto, perché è evidente che sia il modo di fruire dell’informazione sia i meccanismi della disinformazione condizionano il nostro lavoro.
Se la maggior parte delle persone si fermano al titolo di un articolo, difficilmente sarà possibile per loro intuire che i contenuti non reggono, sono inventati di sana pianta o non hanno alcun modo per essere verificati. In altre parole: diventa quasi impossibile che il lettore possa smascherare da solo una bufala.

I rimedi al problema che vengono avanzati e annunciati in questi giorni, però, sono quanto di più lontano dalla soluzione possa esistere. I giri di vita e le strette sul web, di cui anche alcuni parlamentari parlano farneticando di leggi in materia, dimostrano una quasi totale ignoranza dei meccanismi stessi del web. A meno che non si arrivi a provvedimenti “cinesi”, ovvero all’oscuramento e alla censura di interi siti non graditi al governo, soluzione che suona un filino antidemocratica, la rete saprà sempre trovare il modo di aggirare eventuali multe, divieti e blocchi imposti da inutili provvedimenti legislativi.
Verrebbe però da pensare che il legislatore sappia benissimo che non arginerà il fenomeno con un bavaglio, quindi l’obiettivo potrebbe essere di ben altra natura.

L’unica vera e duratura soluzione alla diffusione di bufale consiste nel dotare le persone degli strumenti necessari a valutare l’attendibilità di una fonte e a scartare quella inattendibile. Ancora a monte, la vera soluzione passa attraverso l’istruzione. Sia essa l’educazione civica, che ad esempio ci risparmi dal dover sempre osservare che il presidente del Consiglio dei Ministri non viene eletto dal popolo, sia le basilari nozioni per comprendere che se un articolo non ci dà sufficienti elementi per verificare, in teoria e di persona, la sua fondatezza, dobbiamo almeno leggerlo con un certo sospetto e una certa diffidenza.
Gli stessi dirigenti politici che oggi si lamentano delle conseguenze dell’analfabetismo funzionale, però, sono quelli che hanno smantellato la scuola e l’istruzione nel nostro Paese negli ultimi venti anni. Non si lamentino, quindi, se uno degli effetti collaterali gioca a loro svantaggio.

L’ATTENDIBILITÀ DELLE FONTI GIORNALISTICHE
Il problema fin qui descritto, però, non può ignorare ciò che è successo al mondo dell’informazione italiano, che potrebbe essere una concausa della situazione attuale. Se un articolo di una blasonata testata ha la stessa – o addirittura inferiore – risonanza di una bufala, non è solo colpa dell’eguale “peso grafico” che i social network attribuiscono alle due diverse fonti, ma ci suggerisce anche una perdita di credibilità dei media ufficiali.

È arrivato il momento che i giornalisti smettano di auto-assolversi sempre e ammettano le proprie colpe. La scarsità di editori puri, non legati a potentati economici o a lobby politiche, in Italia dovrebbe già suggerirci che la qualità dell’informazione del nostro Paese è bassa e risponde a criteri che poco hanno a che fare con l’obiettivo di informare lettori o ascoltatori. Come può essere garantita l’indipendenza di chi informa se il proprietario della testata è una parte in causa in molte vicende finanziarie o politiche?
Gli articoli di molte testate considerate prestigiose nel nostro Paese sono autentici copia e incolla di comunicati governativi e dichiarazioni di politici, senza il più basilare fact checking di quello che viene detto. Come se bastasse mettere le virgolette ad una dichiarazione per mettersi al riparo dall’accusa di fare propaganda invece di fare informazione.

Questa tesi è dimostrata dai colossali granchi presi recentemente – dalla Brexit all’elezione di Trump, fino al referendum costituzionale italiano – da autorevoli quotidiani che sostenevano di raccontare la realtà, mentre stavano semplicemente veicolando una velina di palazzo.
La professionalità giornalistica si sta perdendo a causa di meccanismi che, ancora una volta, hanno più a che fare col marketing che con l’informazione. E noi giornalisti, spinti degli editori, rischiamo di esserne i primi complici, rischiando di rendere non più necessaria la nostra stessa professione.
Se su tutti i giornali leggo che l’unica via per uscire dalla crisi economica è la compressione dei diritti dei lavoratori, senza una riga che lo metta in dubbio o lo analizzi in modo critico e senza il benché minimo spazio ad idee alternative, che pure esistono, perché non dovrei credere alla bufala dei richiedenti asilo negli hotel a 5 stelle e pagati 35 euro al giorno (che pure trovo sugli stessi giornali)?

Anche in questo caso, la risposta al problema non è quella enunciata da Beppe Grillo ieri. Non è certo una giuria popolare o un tribunale dello stesso popolo che non ha gli strumenti per capire cos’è una baggianata e cosa non lo è – da qualunque parte venga – a cambiare le cose.
In questa partita, in realtà, l’Ordine dei Giornalisti potrebbe giocare un ruolo importante, ma non sembra minimamente in grado di farlo. Se al posto di alcune strutture inutili di cui si è dotato, ne avesse una dedita al fact checking, grazie alla quale intervenisse in modo più presente e incisivo sul lavoro dei colleghi disonesti, magari qualcosa cambierebbe. Invece gli stessi e importanti codici di deontologia di cui si è dotato non vengono fatti rispettare.

LA RESPONSABILITÀ DEI CITTADINI
I temi di cui si discute oggi sono in realtà collegati ad un tema che ogni tanto riaffiora nel dibattito pubblico italiano, senza però che seguano provvedimenti significativi (anzi: spesso seguono provvedimenti peggiorativi): il pluralismo dell’informazione.
Se è vero che oggi siamo ad un livello ancora precedente, cioè dobbiamo insegnare cosa è giornalismo e cosa non lo è, garantire un pluralismo autentico potrebbe contribuire a risolvere il problema.
Ai tempi di Berlusconi e dell’editto bulgaro si strillò parecchio sul pensiero unico e sul monopolio dell’informazione. Problemi che, ad essere sinceri, sono stati amplificati a scopi politici.

Da un lato quello del pluralismo è un falso problema, perché le alternative sono sempre esistite ma buona parte degli italiani sembra avere una vocazione mainstream dettata dalla pigrizia, per cui si preferiscono prodotti scarsi ma a portata di mano (e di telecomando), piuttosto che la fatica che comporta cercare la qualità.
È vero: c’è un problema di portata, perché una piccola testata indipendente e con pochi mezzi economici difficilmente potrà competere con un colosso, anche se la prima fa un lavoro qualitativamente ottimo e il secondo produce spazzatura.
Se però le persone smettessero di guardare i programmi di Barbara D’Urso o Paolo Del Debbio in favore, ad esempio, degli approfondimenti di Radio3, quei format-spazzatura chiuderebbero o sarebbero costretti a cambiare radicalmente la propria offerta, in favore di maggiore qualità.

Il punto è che la cultura del disimpegno e dell’intrattenimento sembra ormai aver surclassato quella dell’impegno e dell’approfondimento. E se le scelte dei lettori/spettatori/ascoltatori inseguono il trash che viene loro propinato senza il minimo spirito critico, senza esercitare il potere commerciale che, in quanto consumatori, in realtà hanno, sarà poi difficile lamentarsi a posteriori.