Nella filiera agroalimentare dell’Agro Pontino le donne migranti sono spesso soggette a sfruttamento lavorativo, violenza fisica, verbale e di genere. È quanto emerge dalla ricerca “Lo sfruttamento lavorativo delle donne migranti nella filiera agroalimentare: il caso dell’Agro-Pontino”, condotta dal sociologo Marco Omizzolo all’interno della campagna #OurFoodOurFuture di cui fa parte la ong WeWorld onlus.

Lo sfruttamento delle donne migranti nell’Agro Pontino

Grazie a documentari come “The Harvest” di Andrea Mariani era già nota la condizione di sfruttamento che subiscono le persone migranti, in particolare di origine indiana, nel settore agroalimentare dell’Agro Pontino. Dei 30.000 migranti indiani della Provincia di Latina, in particolare, si stima che il 65% sia sottoposto a una qualche forma di sfruttamento.
Il focus della ricerca di WeWorld e Omizzolo, invece, si concentra sulla condizione delle donne migranti, che appare ancora più grave.

«Abbiamo scelto di fare questo focus – spiega ai nostri microfoni Margherita Romanelli, coordinatrice Policy e Advocacy di WeWorld – perché l’agricoltura si sta femminilizzando, quindi impiega un maggior numero di donne migranti extracomunitarie, soggetti che di per sè sono maggiormente fragili e per questo subiscono tutta una serie di abusi».
In particolare, dalla ricerca emerge quello che viene definito “prisma dello sfruttamento femminile”: una serie di caratteristiche peculiari che aggravano le forme di sfruttamento stesso cui sono sottoposti tutti gli altri braccianti.

Da un lato la condizione di migrante si scontra con la chiusura di ogni accesso regolare in Italia delle persone, costringendole a nascondersi e non accedere ai percorsi di giustizia. Dall’altro la povertà economica spinge le persone a migrare in luoghi dove sperano di trovare lavoro, ma al contempo le costringe ad accettare qualunque offerta. Anche il lavoro in agricoltura è fonte di discriminazione, perché viene considerato un lavoro basso, con annessi di classismo.

Vi sono poi elementi specifici della condizione femminile, come ad esempio la persistenza di stereotipi, che in realtà registrano una somma tra quelli italiani e quelli del Paese di provenienza. «Per esempio il salario di una donna migrante viene ancora negoziato dal marito insieme al proprietario dell’azienda – osserva Romanelli – e spesso ciò determina salari che sono il 20 o 30% rispetto a quello che il marito negozierebbe per sè».
I ricatti e le discriminazioni, inoltre, si concentrano molto sulle madri. Qualora le donne rifiutino proposte sessuali, che sfociano in veri e propri abusi, vengono minacciate di diffamarle presso la comunità, compresi i figli, dicendo che sono poco di buono.

La campagna #OurFoodOurFuture

Molti alimenti presenti nei supermercati europei, dunque, contengono ingredienti invisibili come violazioni dei diritti umani e degrado ambientale. La campagna internazionale #OurFoodOurFuture portata avanti da WeWorld coinvolge 16 organizzazioni dell’Ue, del Sud Africa e del Brasile e chiede di cambiare radicalmente il sistema.
Lo sfruttamento delle persone e dell’ambiente, oltre a rappresentare un danno in sè, costituisce anche una concorrenza sleale nei confronti delle aziende virtuose, impedendo loro di riuscire a stare sul mercato.

All’interno della campagna, martedì 26 ottobre al Centro Costa di Bologna si terrà un’iniziativa in cui verrà presentata la ricerca, ma si parlerà anche di estrattivismo in America Latina con l’esperto Carlos Augusto Herz Sáenz del Centro Bartolomé de las Casas.
«Ci sarà anche un’esperta legale – aggiunge Romanelli – che parlerà di una proposta di legge europea che potrebbe rivoluzionare il settore». In particolare, in Europa si sta discutendo una legge che obbliga le aziende a rispettare i diritti umani e l’ambiente lungo le catene di approvvigionamento globali per prodotti commercializzati in Europa attraverso un processo di due diligence.

ASCOLTA L’INTERVISTA A MARGHERITA ROMANELLI: