Se, con un’eredità un po’ razzista, ai bimbi italiani viene agitato lo spauracchio dell’uomo nero che li porterebbe via, l’inchiesta pubblicata ieri sul Domani e firmata da Cecilia Ferrara e Stefania Albanese racconta di una realtà ribaltata, quella in cui è l’uomo bianco a strappare alle madri migranti i propri figli.
L’inchiesta prende le mosse da una sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani (Cedu), che condanna l’Italia per la sottrazione dei figli a donne migranti, spesso vittime di tratta, e l’affidamento o l’adozione a coppie italiane. Per la corte non si può interrompere la frequentazione della madre con i figli fino alla fine del procedimento a meno che non ci siano abusi o pericolo per i minori.

Adozioni a rischio, la Cedu condanna l’Italia

«Questa inchiesta nasce all’interno di un lavoro di Lost in Europe sulla tratta delle donne nigeriane in Europa – racconta ai nostri microfoni Cecilia Ferrara – Nei centri di accoglienza di alcuni Paesi le ospiti ci segnalavano che, quando sono passate per l’Italia, avevano paura che venisse loro portato via il figlio».
Quello che poteva essere annoverato tra gli spauracchi, goffi e illegittimi, agitati dagli operatori dei centri di accoglienza italiani per convincere le migranti ad essere mansuete si è però rivelato un fenomeno che riguarda decine di casi.

Un indizio in questo senso arriva dalla sentenza della Cedu del primo aprile scorso, con cui condanna l’Italia a seguito di un ricorso di una donna a cui è stata tolta la potestà di due figlie. «La corte ha detto che non si può dare in adozione, quindi interrompere il rapporto tra madre e figlie prima della fine del procedimento giudiziario per lo Stato di abbandono – osserva Ferrara – Quindi le autorità italiane dovevano dare la possibilità alla madre di frequentare le figlie, che erano anche state separate, cosa che non si dovrebbe fare». Inoltre, la corte ha evidenziato come il sistema italiano non abbia tenuto conto della vulnerabilità della madre, che era stata vittima di tratta, ma anche delle differenze culturali nella maternità.

In particolare, l’inchiesta di Albanese e Ferrara mostra come nel sistema di accoglienza italiano, ma anche nelle aule dei tribunali non vengano adottati strumenti adeguati di mediazione culturale e come sia facile avviare procedimenti per togliere i figli alle donne nigeriane, anche con pretesti banali, come dare da mangiare con le mani o reagire in modo veemente.
I mediatori culturali spesso non ci sono negli ospedali, non ci sono nei tribunali, ma spesso nemmeno nel momento in cui si decide se la madre ha capacità genitoriale o meno e se aprire lo stato di abbandono e l’adottabilità dei figli. «Spesso viene svolto un test da psichiatri, ma ci vorrebbe almeno un etnopsicologo o un etnopsichiatra per permettere alle persone di capire il diverso contesto simbolico di riferimento».

Le conseguenze della facilità con cui vengono aperte queste procedure, quindi, ha un impatto sia sulla madre, ma anche sui figli che vengono allontanati dalla genitrice.
«Uno dei grandi non-detti – osserva la giornalista – è che se questi figli sono molto piccoli, è più facile che trovino una famiglia che li vuole adottare, altrimenti finiscono in una casa-famiglia».
In questi iter a finire sotto giudizio sono spesso donne vittime di tratta, cui bisognerebbe fornire aiuto più che un giudizio sulla loro capacità genitoriale. L’accoglienza italiana, però, sembra impostata in modo da avere un “migrante-modello” e le persone che differiscono da questa idea rischiano di pagarne preoccupantemente le conseguenze.

ASCOLTA L’INTERVISTA A CECILIA FERRARA: