Se qualcuno pensava che la tragedia della pandemia fosse servita da lezione per abbandonare le politiche di smantellamento del welfare pubblico e la sua privatizzazione sarà costretto a ricredersi velocemente. Nonostante i proclami sulla sanità pubblica territoriale, i “mai più tagli” e il fallimento dei modelli sanitari – come quello lombardo – dove il privato gioca un ruolo centrale, il dogma del mercato torna a fare capolino.
L’occasione, questa volta, è quella della riforma della pubblica amministrazione, che ieri ha visto la firma di un accordo tra lo Stato, nei panni del ministro Renato Brunetta, e Cgil, Cisl e Uil.

Sanità privata e pensioni integrative: il welfare sempre meno universale

All’interno dell’accordo siglato da Stato e sindacati confederali, nella parte relativa al rinnovo del contratto, c’è un passaggio che riguarda il cosiddetto “welfare aziendale”. In particolare il testo recita: «le parti concordano sulla necessità di implementare gli istituti di welfare complementare (…) estendendo ai comparti pubblici le agevolazioni fiscali previste per i settori privati».
«Sostanzialmente il pubblico impiego chiede un rinnovo contrattuale non soltanto su base salariale, ma di integrare il welfare aziendale – osserva ai nostri microfoni l’economista Marta Fana – cioè quella cosa che negli anni ha ridotto la capacità del welfare pubblico di essere universale, lasciando ampio margine alla penetrazione della sanità privata».

L’utilizzo del welfare aziendale nel rinnovo dei contratti di lavoro è un strumento che negli ultimi anni i sindacati confederali hanno utilizzato molto, specie come baratto per l’erosione del potere di acquisto dei salari di lavoratrici e lavoratori. «Però è un baratto tutto a perdere per la società – sottolinea Fana – e viene da chiedersi quali siano gli interessi dei sindacati dentro le mutue assistenziali o previdenziali private».
L’economista sostiene che ampliare il mercato della sanità privata e delle pensioni integrative è molto più inefficace ed evidenzia come il salario sia una cosa che dipende dal rapporto di lavoro, mentre lo stato sociale e il welfare sono dei diritti universali che dovrebbero essere garantiti a tutti anche al di fuori del rapporto di lavoro.

Il messaggio che passa dall’accordo, dunque, è che a lavoratori e lavoratrici serve più stato sociale, più sanità e più asili, ma lo Stato, piuttosto che rendersi responsabile della produzione e distribuzione di questi beni e servizi delega al privato. «Di fatto significa spostare pezzi di costo dello Stato, che però significherebbero anche più investimenti in occupazione e quantità di servizi, che invece vengono regalati al mercato – conclude l’economista – Lo Stato con gli stessi soldi potrebbe farlo da sé, invece preferisce darlo al privato, facendo da balia ad un sistema privato che altrimenti non avrebbe legittimità».

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