Forse è vero, come dice Papa Francesco, che stiamo già vivendo la terza guerra mondiale, ma divisa in pezzi. È certo, però, che la paura di un conflitto globale in senso classico – con tutte le potenze impegnate fino alla morte l’una contro l’altra – è una paura che dagli anni ’40 aleggia sull’umanità. Se nella seconda metà del ‘900 chiunque avrebbe scommesso un conflitto simile potesse scoppiare solo tra Stati Uniti e Unione Sovietica, ora è la tensione tra Washington e Pechino a spaventare.

Ai punti caldi che circondano la Cina è dedicato il terzo episodio de La Prossima Guerra, il podcast di Radio Città Fujiko sui conflitti dimenticati e quelli che ancora devono scoppiare. Alessandro Albana, sinologo, ci aiuta a capire quanto probabile sia davvero lo scoppio di una guerra di grande portata tra Stati Uniti e Cina.

«Distinguiamo il sensazionalismo dalle analisi» parla Alessandro Albana

Il primo oggetto del contendere, quello di cui più si parla anche sulla stampa occidentale, è l’Isola di Taiwan. Posta a largo delle coste cinesi, la sua indipendenza è un fatto relativamente recente, frutto della faticosa nascita della moderna Repubblica Popolare di Cina. «Fino alla fine degli anni ’40 si è consumata una sanguinosa guerra civile che ha contrapposto il Partito Comunista Cinese e le forze nazionaliste del Kuomintag» racconta Albana. «Queste ultime, sconfitte alla fine del conflitto, si rifugiarono nell’isola di Formosa – o, appunto, Taiwan. Da allora la situazione non è cambiata. Il Partito Comunista governa la Repubblica Popolare di Cina con capitale Pechino, e considera Taiwan una roccaforte ribelle che prima o poi tornerà sotto il controllo del governo centrale. Anche coloro i quali sono rimasti a Taiwan considerano la Cina unica e indivisibile, ma ne rivendicano il controllo. Il governo di Taiwan guida quella che legalmente si definisce Repubblica di Cina, con capitale Taipei».

Una tensione incancrenita, ma non congelata. «Al di la delle posizioni ufficiali, la vita politica taiwanese si è fatta più complessa negli anni. Se fino al 1988 Taiwan era retta da una dittatura, a partire dagli anni ’90 l’isola è stata investita da un processo di democratizzazione. Dal 2016 è al potere il Partito Progressista e Democratico – non più il Kuomintag, all’opposizione – che spinge per una visione autonomista, diversa dal collante dell’unica Cina. Si parla di taiwanizzazione: gli abitanti di Formosa si sentono sempre meno cinesi e sempre più, autonomamente, taiwanesi».

Molti analisti temono il seguente scenario: un giorno o l’altro la Cina decide di riprendere con la forza Taiwan, la Nato risponde militarmente in chiave anticinese per difendere l’isola, e si arriva ad un conflitto globale sul calco delle due guerre mondiali. Quanto è probabile un’evoluzione simile, chiediamo. «Distinguiamo il sensazionalismo dalle analisi. Uno scenario di questo tipo a chi conviene?» ci risponde Albana. «Sarei propenso a credere che tutti gli attori in gioco, sebbene non pienamente soddisfatti, considerino lo status quo come il miglior compromesso possibile. La Cina avrebbe tutto da perdere dall’invasione di Taiwan. Non mi riferisco al piano militare, su cui chiaramente la superiorità di Pechino è schiacciante, ma alle reazioni della comunità internazionale – e, per chiamare le cose col loro nome, degli Stati Uniti. Il presidente Biden quando è entrato in carica ha ribadito ben due volte che gli USA sono disposti a sostenere militarmente Taiwan. Credo che né alla Cina, né a Taiwan né agli Stati Uniti convenga spostare una virgola rispetto agli equilibri attuali».

Ascolta il secondo episodio del podcast: Il difficile triangolo geopolitico tra Cina, India e Pakistan

L’altro punto caldo è il cosiddetto Mar Cinese Meridionale, un’ampio pezzo d’oceano la cui sovranità è da sempre contesa. «Questo è un esempio da manuale di quadrante di mondo che vive una storica instabilità con scarsissimo eco sui media occidentali mainstream. In un’area di oltre 3 milioni di chilometri quadrati sei stati – Cina, Taiwan, Vietnam, Malesia, Filippine e Brunei – litigano sulle rispettive zone di appartenenza. Fin qua non parliamo di un caso unico al mondo, ma l’elemento di destabilizzazione è dato dalla rivendicazione cinese di qualcosa come l’85% di quest’area. Una richiesta che fa alzare la tensione, specie se accoppiata alla posizione statunitense, che a sua volta pretende la cosiddetta freedom of navigation, la libertà di navigare in quelle acque. Una richiesta che chiaramente non piace a Pechino».

Perché è così importante questo tratto di mare? «Perché ci transita un terzo del commercio marittimo globale, perché il 40% dei beni diretti o in partenza dalla Cina passa da questa zona, perché nel sottosuolo abbondano gas e petrolio – beni fondamentali per il modello economico energivoro cinese. Nell’insieme il numero degli attori coinvolti, i continui incidenti militari, l’assertività delle tattiche messe in atto, rendono questo pezzo di mondo particolarmente critico. Per ora la situazione non è degenerata, vedremo in futuro».

ASCOLTA IL TERZO EPISODIO DE LA PROSSIMA GUERRA CON ALESSANDRO ALBANA:

Lorenzo Tecleme