Torna sul palco del Comunale, dopo quarant’anni di assenza, il titolo verdiano “La forza del destino”, sul podio Asher Fisch, regia, scene e costumi del greco Yannis Kokkos. Opera d’insieme il cui valore risiede nella complessità della tessitura sonora della partitura, nel dialogo tra coro, orchestra e solisti più che nell’approfondimento dei caratteri dei personaggi e nei numeri chiusi. Sfidando la fama di opera maledetta che porta jella e malasorte, dopo il debutto a fine settembre al Regio di Parma, con cui è coprodotta dal TCB, dal Massimo di Palermo e dall’Opéra Orchestre National Montpellier Occitane, arriva nel padiglione fieristico, sede del Comnale Nouveau, ottenendo il favore del pubblico per la sobria eleganza della messa in scena, le interessanti voci del cast solistico e l’ottima resa di coro e orchestra che emoziona nei momenti d’insieme.

La forza del destino debuttò sul palco del Teatro Imperiale di San Pietroburgo il 10 novembre del 1862 dopo il tentativo di messa in scena, fallito, dell’ anno precedente, a causa della malattia della soprano incaricata, prima dell’avvo delle prove, circostanza che fece sì che Verdi dovette tornare nella sua residenza di Sant’Agata nonostante si fosse preparato a un lungo soggiorno in Russia recando con sé centinaia di bottiglie di bordeaux e di champagne. Chiamato dallo zar a comporre un’opera aveva inizialmente proposto una trascrizione dal Ruy Blas di Victor Hugo, che venne osteggiato dalla censura. Dopo il rifiuto Verdi voleva rinunciare all’incarico, poi ci ripensò trovando un soggetto adatto nella tragedia spagnola Don Alvaro o La fuerza del sino di Angel de Saavedra y Ramirez duca di Rivas. Verdi fu colpito dalla complessità dell’intreccio che univa la tragedia al comico e dalla persenza di tanti personaggi (poi sfoltiti del librettista Piave), che consentivano varietà nell’orchestrazione, e dai continui colpi di scena.

Se lo zar affidava la costruzione degli edifici pietroburghesi ad architetti italiani e l’opera italiana era assoluta protagonista nei teatri cittadini, c’era tuttavia in Russia una corrente slavofila che si opponeva a quella degli occidentalisti che, oltre a chiedere allo zar una costituzione e la liberazione dei servi della gleba, lavorava, sul piano musicale, ad un affrancamento dai modelli italiani per portare in scena la realtà russa. Giovani musicisti russi assistendo, in quel novembre del 1862, a La forza del destino, seppure l’accolsero freddamente, furono ispirati, per lo meno, dalle scene corali, dalle masse popolari rappresentate da Verdi inneggianti alla guerra o mendicanti un pezzo di pane.

Proprio in quelle scene collettive anche Verdi vedeva la forza della sua opera, tanto che in una lettera ad Antonio Gallo, inviata dopo il debutto della seconda versione dell’opera alla Scala di Milano nel 1869 con l’aggiunta della Sinfonia iniziale, poi diventata iconica, e con il finale modificato in cui Alvaro sopravvive al’ecatombe generale, scrive “..i Quadri svariati, più vasti, che riempiono una metà dell’opera e … costituiscono veramente il Dramma Musicale” aggiungendo poi “la cornice è divetata quadro”. L’innovazione verdiana di quest’opera, non compresa subito dalla critica e dal pubblico, come nota nella stessa lettera il compositore, consiste proprio nell’aver spostato il focus dalle arie e duetti alle scene d’azione, convinto che quelle possano diventare il centro dell’attenzione e smuovere l’applauso. Se prima le scene corali erano la cornice dello spettacolo, Verdi le rende oggetto del quadro rappresentato. La forza del destino allarga la prospettiva, dai numeri chiusi si passa a concentrare l’attenzione sulla Storia lasciando anche meno definiti i caratteri dei personaggi. Verdi in quest’opera sperimenta nuove tecniche che aprofondirà nel Don Carlos attivando un cambiamento i cui frutti verranno raccolti da altri compositori negli anni seguenti.

L’amore sfortunato tra Leonora e Alvaro, la ricerca della vendetta da parte del fratello di lei, Don Carlo Vargas, per l’accidentale morte del padre, il marchese di Calatrava, si trovano ad essere narrati all’interno di uno scenario di guerra in mezzo a situazioni di più ampio respiro in cui, come spettatori e spettatrici, assistiamo a scene in cui il popolo ora inneggia alla guerra, ora ne subisce le conseguenze come vittime delle distruzioni e della carestia causata dalla guerra stessa. L’esaltazione guerresca, l’incitamento all’amor di patria ha continuamente, come contraltare, momenti di intensa spiritualità, preghiere, invocazioni di pace e la questua per un pò di “fondone”.

Per la messa in scena il regista e scenografo Kokkos seglie la strada dell’asciuttezza, della pulizia degli spazi creando un dispositivo scenico completamente nero disponibile a rappresentare uno spazio senza tempo, reale ma anche da saga fantastica, fatto di praticabili con diversi gradini e livelli a cui si aggiungono pochissimi elementi, come ad esempio, nel primo atto, solamente un trono nero borchiato e uno sgabello, sul fondo poche sedie. Integrano la dimensione spaziale anche dei video, proiettati su uno schermo sul fondo non perfettamente perpendicolare al palcoscenico, ma inclinato, in modo da accentuare il senso di incombenza delle immagini delle nubi ivi proiettate o la deformità delle linee di porte e stanze, o dei paesaggi fatti di scheletri di edifici semi distrutti. Le proiezioni danno a volte un risultato da cinematografia espressionista, a volte tendende al fumettistico e, in una scena del terzo atto vira quasi alla psichedelia di fine anni ’60 risucchiando lo sguardo di spettatrici e spettatori in un vortice di colori vividi a dare l’impressione di un mondo messo totalmente a soqquadro dalla follia della guerra e dai comportamenti peccaminosi del popolo che impediscono una pacificazione costringendo tutti a una vita maledetta fatta di baldoria e affari lucrativi sulla pelle degli stessi concittadini assumendo l’aspetto di spettri. Su tutto domina la violenza dei comportamenti, la guerra e il principio di vendetta affermato con forza da Don Carlo. Siamo tra Spagna e Italia nel Settecento, ma potremmo essere in qualunque epoca o in una serie fantasy oggi di moda. Tra un atto e l’altro passano mesi o addirittura anni e la messa in scena ci aiuta a vivere le vicende come in uno spazio tempo concettuale in cui non ha importanza il tempo, ma le interrelazioni tra la dimensione bellica e quella spirituale dell’esistenza che coinvolge e sconvolge il popolo che subisce lutti e distruzioni al pari della propaganda guerrafondaia.

Se da un lato abbiamo il personaggio di Preziosilla, interpretato dalla brava ed energica mezzo soprano Nino Surguladze che fa l’elogio della guerra “Evviva la guerra”, incitando i popolani ad arruolarsi e richiama tutti all’armi cantando un onomatopeico “Rataplan”, compare anche un personaggio losco, Mastro Trabuco (Orlando Polidoro), che fa affari comprando per pochi danari oggetti peziosi dalla povera gente per poi rivenderli ad altri disgraziati sedotti dai suoi modi accattivanti. Il moralizzatore dei costumi del popolo è Frà Melitone (Roberto De Candia), del convento della Madonna degli Angeli scandalizzato dai comportamenti dei popolani anche quando, affamati, chiedono con troppa insistenza da mangiare. Quei tre personaggi virano, in alcuni momenti, la tragedia in commedia per interpretare i quali anche Verdi raccomandava a Giulio Ricordi di assumere “tre artisti molti disinvolti in scena” essendo “le scene loro commedia, nient’altro che commedia” e aggiunge, in un’altra lettera questa volta spedita a Tito Ricordi, “son tre parti comiche se i tre artisti non le eseguiranno collo spirito e carattere voluto non avrete un opera ma un De profundis“. In effetti i momenti in cui compaiono questi tre personaggi, anche in questa messa in scena, sono divertenti, incisivi, pieni di carattere e giocosità, ottimo contraltare alla cupezza di altre situazioni del dramma e diventano funzionali anche al regista per far riflettere sull’attuale situazione bellica dove, al pari, la povera gente è irretita dalla propaganda e dalle promesse di buoni affari e intanto è costretta a mendicare aiuti con il rischio di essere derisa anche da chi è preposto ad erogare la carità, passando per arrogante, quando reclama solo pane.

Yannis Kokkos non fa tuttavia nessun richiamo esplicito all’attualità, nè forza paragoni, lascia che lo spazio vuoto riempito dalle masse popolari e l’evocazione di distruzioni causate dalla guerra attarverso le sagome di palazzi scheletriti ci riprtino in autonomia a quanto compare ogni giorno sui nostri schermi televisivi o dei cellulari, dandoci semplicemente, attraverso colori e forme, la sua immagine di un mondo a soqquadro mentre la musica di Verdi ci offre la speculare immagine acustica.

Musicalmente travolge la sinfonia iniziale, la sua drammaticità iniziale e l’incalzare minaccioso che si muta in melodia distesa e canto. Il motivo della sinfonia torna, come leitmotive più volte come segno dell’ineluttabilità del destino. Colpiscono poi i continui contasti tra l’incitazione alla guerra di Preziosilla e il coro fuori scena dei pellegrini che pregano a voci sole a cui poi si unisce la preghiera anche dei popolani in scena con un alternanza tra voci sole da lonano e voci accompagnate dall’orchestra tutta o solamente da uno strumento, tra pieni e vuoti.

Emoziona la preghiera di Leonora alle prte del convento “madre pietosa Vergine” sul tema della sinfonia. Mente l’orchestra incalza, il canto a contrasto è doloroso e disteso, si profonde un senso d’ansia dato dal tremulo di violini mentre giunge da lontanio ancora un coro che prega.

Porta al riso Frà Melitone che borbotta contro i superiori che mantengono segreti da cui è sempre escluso e mentre si allontana nella nebbia della notte camminando idealmente lungo un infinito colonnato evocato dalle proiezioni, si ode un organo che dialoga poi con un violino solo che riprende il tema della sinfonia mentre sfilano i frati in preghiera. Potente, musicalmente, la scena in cui il Padre Guardiano lancia una maledizione su chiunque dei confratelli oserà violare la solitudine dell’eremo in cui si rinchiuderà Leonora, invocando lo sconvolgimento della natura in caso di contravvezione.

Meritati applausi vengono tributati a Roberto Aronica nei panni di Alvaro, a chiusura della prima scena dell’atto terzo per “La vita è inferno all’infelice” e, conoscendo la scelta di Verdi nella revisione dell’Opera del 1869 di lasciarlo in vita anzichè farlo morire con Leonora e Don Carlo, fa pensare alla ineluttabilità del proprio destino, quale che sia, rispetto ai desideri dei singoli, sentendo quante volte egli invochi la morte, senza poterla ottenere per dare pace al proprio dolore.

Tutto l’atto terzo porta al suo apice la coralità dell’opera e consente di percepire la richhezza dell’orchestrazione, l’intreccio tra momenti solistici e coro e l’alternanza dei piani tra il militaresco e lo spirituale. Esplodono bombe, si muovono eserciti e soccorritori che cercano di prendersi cura dei feriti, i soldati ora vanno all’assalto ora chiedono svago nella bisca. Tra momenti di esaltazione guerresca e rimpianti per le madri e le belle che li attendono a casa, vengono narrati tutti i soggetti che si muovono attorno a un accampamento di guerra: vivandiere, trafficoni, indovine e moralizzatori dei costumi. La follia della guerra prevale in chiusura d’atto con i “Rataplan, pim pam pum ” di Preziosilla sostenuto dal coro tutto nel risuonare dei tamburi che rende perfettamente lo stravolgimento del mondo causato dalla violenza.

Il quarto atto si distanzia temporalmente dal precedente di 5 anni, si apre con i mendicanti trattati da pezzenti da Fra Melitone geloso poi di Padre Raffaele più caritatevole con i poveri. Scopriamo che Raffaele altri non è che Alvaro ritiratosi nel convento. Don Carlo lo trova e vuole finalmente compiere la sua vendetta familiare, Raffaele- Alvaro, divento uomo di chiesa, non accetta l’arma per il duello, ma infine, costretto a difendersi, ferisce a morte il fatello di Leonora proprio di fronte all’eremo in cui da molto tempo sta, solitaria, l’amata.

Sul tema conduttore dell’opera Leonora prega e invoca la pace, molto toccante il dialogo in solo con l’arpa. L’irrompere di Alvaro in abiti da frate all’eremo attiva la maledizione scagliata a suo tempo dal Frate Guardiano, come fosse un incantesimo musicale. Leonora professa il suo immutato amore ad Alvaro, ma il destino suo è segnato. Si avvicina per soccorrere il fratello da cui è fuggita tutti quegli anni e nel gesto caritatevole trova la morte. Solo Alvaro è condannato da Verdi e Francesco Maria Piave a vivere.

A fine spettacolo è stato un peccato che il coro, protagonista dei momenti migliori dell’opera, non sia comparso in palcoscenico per gli applausi, venendo rapprsentato solo dalla Maestra Gea Garatti Ansini e dai coristi solisti, per l’assurda usanza, o accordo sindacale che sia, di congedare il coro dopo la loro ultima scena se non sono necessari fino alla fine dell’opera. Così in un opera fondata sulla coralità, il coro non resta a prendersi quegli applausi che Verdi stesso immaginava che prima o poi, dovessero essere tributati alla cornice diventata quadro. Anche le produzioni del nostro secolo alla fine, come all’epoca di Verdi, puntano soprattutto sui nomi in ditta, come si diceva un tempo, finendo per ricondurre in secondo piano, forse per accordi sindacali pretesi dallo stesso coro, l’apporto del coro, rispetto a quello dei solisti.

Molti applausi sono stati tributati a Erika Grimaldi (Leonora), a Gabriele Viviani (Don Carlo) e Roberto Aronica (Don Alvaro), come anche a Rafal Siwek (Padre Guardiano). Nessuna controversia ha suscitato la sobria regia di Yannis Kokkos nè le coreografie di Marta Bevilaqua tutto sommato funzionali a lasciare leteralmente spazio alla coralità, evocando immagini con proiezioni non invadenti. Ben fatte le luci di Giuseppe di Iorio. Convincente ed apprezzata la direzione di Asher Fisch per quest’opera poco rappresentata e quindi tutta da scoprire per tanti spettatori e spettatrici alla prima esperienza con la partitura.