E’ lo show che tutti guardano, ma molti si sentono in dovere di annunciare che loro invece no, non lo guardano, non sono mica pecoroni come gli altri. Sanremo stimola snobismi da cortile perché è un carrozzone che contiene molte cose dell’animo umano, la gente vi si specchia, e il meccanismo della gara rende divisivo tutto il contenuto. Al di là delle preferenze dei singoli e anche degli schieramenti collettivi pro o contro la trap, il pop o i cantautori, Sanremo è importante proprio perché stimola le persone a dibattiti intorno a un aspetto fondamentale del nostro vivere: il senso estetico. Sui grandi classici siamo tutti più o meno d’accordo: sono belli perché ormai incontestabili, e anche se lo fossero fanno comunque parte di tempi andati, e i traslati temporali sono difficili. Ma su cose appena prodotte, ancora calde di forno, ci sentiamo tutti in obbligo di dire la nostra. Spesso frettolosamente, in quanto le sentenze dei primi ascolti sono pericolose: anche il brano più banale può avere armi persuasive ascoltandolo più volte.
Quest’anno c’è stato un cambio nella direzione artistica e soprattutto nella presentazione delle serate: dalla conduzione sregolata e ridanciana di Amadeus si è passati al rigore da questurino di Carlo Conti. Molti hanno apprezzato, alcuni hanno avuto nostalgia di Amadeus perché portava una dose di imprevedibilità che stemperava la liturgia delle esecuzioni canore.
I cantanti tra sincerità e furbizia, look e giornalisti gossippari
Poi ci sono le canzoni, ma soprattutto ci sono i cantanti. Sì, perché il look, il comportamento, il modo di atteggiarsi creano simpatie o resistenze ancor prima del cosiddetto “pezzo”. Cristicchi ha portato una canzone tra il narrato e il cantato sulla tematica della demenza senile. C’è chi ha provato immediata empatia e commozione, e c’è chi invece lo accusa di furbizia commerciale nel provocare lacrimucce di bassa lega. Di Elodie si parla comunque, scoperta o coperta che sia: è ormai una diva del nostro tempo, e l’attenzione che ripone nell’aspetto visivo delle sue apparizioni fa passare in secondo piano la canzone e l’esecuzione. I giornalisti sono lupi affamati di gossip e pongono ai cantanti domande imbarazzanti sul Governo: e in questi casi ogni risposta è sbagliata e contribuisce a dividere e a far discutere il popolino. Il cosiddetto “popolino” (del quale facciamo tutti parte) che durante l’arco dell’anno ha pochissime occasioni e intenzioni di discutere. Il Festival di Sanremo riesuma il senso dell’agorà, e delle varie idee o sensazioni contrapposte che schiamazzano, e nel contempo hanno funzione chiarificatrice e liberatoria.
La sensazione di cose già sentite: Sanremo è presidio di pochi addetti ai lavori
Sul fronte musicale è emersa un’aria diffusa di scopiazzature. Non solo sul pezzo di Giorgia, in cui la cosa è talmente evidente da poter essere considerata “citazione”, ma un po’ su tutto il festival ci sono state arie “già sentite” che rimandano a cose già ascoltate. Un po’ perché gli schemi della canzone sono rigidi e a Sanremo ancora di più: in 3 minuti e 45 secondi ci devono stare le parti più argomentative, e quelle più orecchiabili e ripetute che appunto si chiamano “ritornelli”. L’omologazione viene dal regolamento condominiale, non è tanto colpa degli autori. Tuttavia, gli autori sono sempre quelli, come le case discografiche. E negli anni si sono consolidate lottizzazioni che inevitabilmente tolgono varietà ai prodotti finali. E’ pure emerso che dietro le quinte sta una manager d’oro, i cui cantanti vincono sempre, e le profezie che davano vincitore lo sconosciuto Olly hanno avuto ragione anche stavolta. Tra l’altro, l’ambita vittoria è stata conseguita da un giovanotto che ha portato una canzone inutile e nel solco degli schemi tradizionali. Poi lui è bravo e ha fatto la sua parte più che dignitosamente.
La beatificazione di Lucio Corsi e le polemiche di genere
In questo contesto, Lucio Corsi è apparso come un angelo sceso dal cielo a portare un po’ di artisticità. Forse cominciamo ad essere saturi di troppe proposte tutte uguali, siano esse melodiche o trap, e preferiamo premiare qualcuno che porta qualcosa di diverso. Il ritorno dei cantautori sul podio non è da sottovalutare e potrebbe preludere a nuovi fasti per canzoni un po’ più culturali della spazzatura propinataci negli ultimi 10 anni.
Tra le tematiche di cui Sanremo ci chiama a discutere non ci sono soltanto incastri tra musica, parole e suoni. Ci sono anche presunti meccanismi “di genere”. Cinque uomini sul podio sono un’occasione troppo ghiotta per non fare un po’ di chiasso e reclamare l’obbligatorietà di quote rosa tra i premiati. E anche questa cosa stimola discussioni e punti di vista che partono dalle canzoni ma giungono altrove. E poi il senso di giustizia: per molti il sesto posto di Giorgia è stato “non rispettoso”, in considerazione anche della carriera. Per altri invece occorre giudicare il momento presente, e l’esecuzione magistrale della cantante è avvenuta su una canzone sciatta, frutto della troppa lottizzazione di cui parlavo prima, che costringe i medesimi autori a scrivere per tutti. Col comprensibile gaudio dei “costretti”, che si intascano cifre considerevoli.
Un grande emporio di pretendenti, tra vecchie glorie, nuovi talenti e mestieranti in piena attività
A Sanremo riaffiorano vecchi monumenti (quest’anno Marcella e Ranieri), vi transitano vari cantanti che ci vanno a presidiare il loro segmento di mercato (Gabbani, Noemi, i Modà tra gli altri) e fanno una comparsata fenomeni anomali come Corsi, Brunori, Cristicchi che quest’anno hanno avuto fortuna e attenzioni. Poi ci sono i tanti giovani che provano a salire sul carro industriale: Sarah Toscano, Gaia, Bresh e tanti altri. Per i Coma cose, Sanremo è diventato il trampolino di lancio del loro annuale tormentone: sono i Ricchi e Poveri di oggi, quest’anno meticolosissimi in ogni dettaglio. Una citazione speciale va a Serena Brancale, una sorta di punto di unione tra cultura musicale, capacità performativa e piacevolezza di intrattenimento. C’è spazio per tutti, soprattutto per quelle cose che ci piacciono nostro malgrado, ma ci vergogniamo ad ammetterlo. C’è il prodotto figo, che se dici che ti piace fai bella figura comunque (e quest’anno si chiama Lucio Corsi). C’è spazio per giovani che ci provano e per vecchi che vogliono ancora provare ad esserci, e per i mestieranti di mezza età.
Va tutto bene, un contenitore deve contenere, e Sanremo è un emporio ben strutturato. Forse l’unica cosa da eliminare sarebbe l’autotune, che col pretesto di ragioni artistiche (debolucce) è il salvavita di troppi stonati cronici o quasi. Che probabilmente nemmeno si mettono a studiare canto, perché tanto, per fare i cantanti, saper cantare non serve. E tutto sommato, nello show anche qualche incertezza vocale ci starebbe bene, sarebbe divisiva alla pari del resto. Per tanti sarebbe imperdonabile (della serie “cambia mestiere”), per altrettanti invece il pathos interpretativo farebbe passare in secondo piano gli errori. Perché il senso di Sanremo è questo: continuare ad essere Sanremo, un rituale laico che si osserva anche guardando da un’altra parte.