Non solo Italia. Le pressioni delle lobby delle multinazionali sui governi per accaparrarsi i fondi del Next Generation Eu, il programma di investimenti più noto come Recovery Fund, hanno riguardato diversi Paesi europei. E per arrivare all’obiettivo un po’ ovunque si è tentato di far passare per green l’idrogeno, per la cui produzione si utilizzano ancora fonti fossili e inquinanti.
È quanto emerge dal #RecoveryWatch, il rapporto di ReCommon ed altre realtà europee che ha tracciato gli interessi delle grandi multinazionali sui fondi e sui piani nazionali per la ripresa.

L’idrogeno come strumento delle multinazionali per accaparrarsi i fondi europei

Il titolo del rapporto non lascia spazio a interpretazione “Dirottare il Recovery attraverso l’idrogeno. Come la lobby dei combustibili fossili sta dirottando i fondi per la ripresa dal Covid“.
Sono una decina le realtà europee che, assieme a ReCommon, hanno dato vita ad un osservatorio indipendente per scovare gli appetiti delle multinazioni sui fondi europei. Un lavoro in sinergia che è riuscito ad individuare un filo conduttore sulle pressioni esercitate dalle corporations sui governi per fare in modo che le risorse destinate all’ambiente e alla cosiddetta transizione ecologica finissero nelle loro tasche.

I fondi europei, del resto, sono un’occasione senza precedenti. Si parla di 672 miliardi di euro che, almeno per il 37%, devono essere investiti nell’affrontare il cambiamento climatico. Per raggiungere l’obiettivo è stato necessario il greenwashing, cioè ammantare di sostenibilità ambientale delle forme energetiche che, in realtà, non sono sostenibili, almeno per il processo produttivo fin qui adottato.
Sotto i riflettori è finito l’idrogeno, spacciato come panacea di tutti i mali e fonte energetica del futuro.
In particolare, sono 6,3 i miliardi di euro che verranno investiti per l’idrogeno nei quattro Paesi presi in esame: 185 milioni in Portogallo, 1,56 miliardi in Spagna, due miliardi in Francia e addirittura 2,6 miliardi in Italia.

«Le lobby dei combustibili fossili promuovono l’idrogeno come soluzione climatica – si legge nel rapporto, ma non tutto l’idrogeno è uguale». In particolare si può dividere l’idrogeno in tre diverse categorie attraverso i metodi di produzione. C’è infatti l’idrogeno “grigio“, che rappresenta quasi l’80% della produzione mondiale da gas fossile, cioè il metano, con emissioni di Co2 rilasciate in atmosfera. Il metano, in particolare, è un gas serra che rappresenta un problema per i cambiamenti climatici.

C’è poi l’idrogeno “blu”, ottenuto con la cattura e lo stoccaggio del carbonio. È ciò che Eni vorrebbe fare a Ravenna con un impianto di stoccaggio della Co2 nel sottosuolo, ma si tratta di una tecnica basata ancora sull’estrazione del gas rischiosa e costosa la cui sicurezza e i suoi benefici non sono stati ancora dimostrati su vasta scala.
Infine c’è l’idrogeno “verde”, ottenuto da idrolisi elettrica tramite fonti rinnovabili, che rappresenta attualmente meno dello 0,1% dell’idrogeno prodotto in Europa.

Gli investimenti sull’idrogeno contenuti nei piani nazionali sono superiori, ad esempio, a quelli in sanità, che è il vero tema al centro del disastro provocato dalla pandemia. Nel rapporto si sottolinea che l’investimento italiano in idrogeno e biometano in Italia è arrivato a toccare 4,52 miliardi in una delle versioni del Recovery Plan, mezzo miliardo in più di quanto stanziato per aumentare le terapie intensive e il personale sanitario.
Nelle infografiche del rapporto è evidente la pressione esercitata dalle lobby sul governo. Nelle diverse versioni del Recovery Plan tra il settembre 2020 e il maggio 2021, le risorse stanziate per l’idrogeno aumentavano costantemente, passando da 1 miliardo a 4,2. Ad intensificarsi, infatti, sono stati gli incontri tra ministri e lobbisti delle multinazionali, che solo tra febbraio e maggio 2021 ammontano a 49 riunioni.

Il caso dell’impianto Eni a Ravenna

È annoverabile nella categoria della produzione di “idrogeno blu” il progetto di Eni a Ravenna per lo stoccaggio della Co2 nel sottosuolo, che è diventato il pilastro della decarbonizzazione della compagnia petrolifera. «Affermando di poter catturare dall’atmosfera 50 milioni di tonnellate di Co2 e stoccarle sottoterra, Eni consente a se stessa di continuare a bruciare petrolio e gas ed emettere quelle 50 tonnellate – osserva ai nostri microfoni Andrea Runci di ReCommon – La soluzione, invece, dovrebbe essere quella di non emettere più 50 milioni di tonnellate di Co2 in atmosfera riducendo la propria produzione di combustibili fossili».

Eni, però, non sembra intenzionata a cambiare modello di business col rischio di perdere profitti, perciò ha proposto un progetto che i rischi li fa correre alla popolazione.
«Da un lato gli unici progetti di cattura e stoccaggio di Co2 che hanno funzionato sono quelli che pompavano Co2 nei pozzi petroliferi, in modo da poter estrarre più carburanti, che è un bel paradosso – osserva Runci – Dall’altro l’immissione nel sottosuolo di gas come la Co2 rappresenta un pericolo in zone sismiche come Ravenna, perché potrebbe generare terremoti».

ASCOLTA L’INTERVISTA AD ALESSANDRO RUNCI: