La prevenzione e la cura di fenomeni di estremismo violento e radicalizzazione giovanile non passa attraverso politiche securitarie e repressive, che al contrarie rischiano di incrementarli, ma attraverso politiche sociali che contrastino le disuguaglianze e contro-narrative che accettino la diversità e decostruiscano la polarizzazione. È quanto spiega la ricerca “Estremismo violento e radicalizzazione giovanile: Vettori, manifestazioni e strategie di intervento”, presentata oggi all’interno dell’iniziativa di restituzione del progetto europeo “Rap, Rhizome against Polarization”, curato in Italia da WeWorld onlus e che si propone proprio di approfondire e condividere strategie di intervento concreto per la prevenzione della radicalizzazione giovanile.

Estremismo violento giovanile, cosa dice la ricerca

La ricerca è stata effettuata in Italia nel corso del 2020, in particolare in Lombardia, Emilia-Romagna e Lazio, e analizza le forme di conflitto, intolleranza e discriminazione, e le pratiche di contrasto ai fenomeni di polarizzazione, radicalizzazione ed estremismo violento venute alla luce negli ultimi anni nel nostro Paese, focalizzandosi sui fattori individuali, situazionali e socio/culturali che possono portare la popolazione giovanile ad agire comportamenti violenti nei confronti di alcuni gruppi maggiormente vulnerabili.

«Si tratta di un approccio – spiega Alessandro Bozzetti, docente a contratto di Sociologia e assegnista di ricerca del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna, che ha condotto lo studio – che porta a superare una prospettiva di mera securitizzazione attraverso cui vengono affrontati spesso questi processi». In altre parole, ci si concentra non tanto sulle misure repressive, definendo i problemi non tanto in termini di sicurezza, ma di disuguaglianza, povertà e ingiustizia. Anzi: la gestione securitaria altro non farebbe, escludendo, segregando e rendendo sospetti determinati gruppi, che alimentare l’estremismo violento.

Le componenti che portano soprattutto i più giovani a radicalizzarsi e ad agire comportamenti violenti, fino al terrorismo, sono molteplici: politici, sociali, economici e psicologici. Di questo ha tenuto conto la ricerca, che adotta quindi un approccio multidisciplinare e che, al contempo, sfata alcuni luoghi comuni che circolano attorno al fenomeno. Non è vero, infatti, che gli esponenti dell’estremismo violento appartengano necessariamente a classi sociali ed economiche più povere e, al contempo, non è vero che abbiano un basso livello di istruzione, anche se quest’ultima figura come uno strumento di prevenzione.

La ricerca suddivide i fattori scatenanti in tre categorie (micro, meso e macro). Tra questi sono inclusi la mancanza di risorse, di occupazione, di opportunità educative e di prospettive future, ma anche l’impatto di esperienze traumatiche, non necessariamente dirette, come gli arresti o vissuti di violenza, discriminazione ed esclusione.
Altri elementi riguardano l’identità sociale e collettiva, che nascono dall’appartenenza ad un gruppo in grado di fornire valori e un significato alla vita, in particolare a quella dei membri più vulnerabili. «Questa identità – sottolinea il ricercatore – può diventare anche più importante di quella personale, in quanto il gruppo è in grado di offrire una precisa visione del mondo. Per questa ragione la radicalizzazione può essere considerata un processo sociale».

Tra le più potenti espressioni dell’identità di gruppo ci sono l’appartenenza religiosa o etnica, che possono essere strumentalizzate. Non solo da gruppi estremisti, ma anche da elite politiche che, attraverso rappresentazioni distorte, possono radicalizzare o ingenerare insicurezza. «Il rischio è che tale isolamento porti gli individui ad essere più vulnerabili alla radicalizzazione», osserva Bozzetti.
Quanto ai luoghi della radicalizzazione, sono due quelli presi in considerazione. Da un lato le moschee, anche se in realtà spesso chi manifesta comportamenti di estremismo violento spesso se ne discosta ritenendole troppo moderate, dall’altro il carcere, dove i fattori di radicalizzazione possono essere molteplici, come il risentimento verso la società, la reclusione di per sé o il mancato rispetto dei diritti dei detenuti. In Italia, però, i numeri di chi si è radicalizzato in questi contesti sono bassi.

La complessità del fenomeno si manifesta anche nella constatazione che l’assenza di libertà civili può predire in modo affidabile il terrorismo. «In altre parole, l’emarginazione di alcuni gruppi può aumentare il rischio di estremismo violento – spiega l’autore della ricerca – Fattori di politica internazionale, di politica interna, ma anche la polarizzazione politica stessa, penso alla retorica utilizzata dai gruppi populisti di estrema destra, sono un terreno fertile nel processo di radicalizzazione dei soggetti».
Infine c’è la dimensione online che agevola la ricerca di modelli con cui identificarsi. Alcune azioni terroristiche trasmesse in diretta dagli autori degli attentati ne sono la rappresentazione più estrema.

La ricerca ha preso in esame gli ultimi trent’anni dell’estremismo in Italia, da cui emergono essenzialmente due fenomeni: la radicalizzazione islamica e il terrorismo legato all’ultradestra. Ma mentre per il primo nel nostro Paese i livelli di radicalizzazione sono minori rispetto ad altri Paesi d’Europa, l’estremismo di estrema destra invece ha una dimensione consistente.
«A livello internazionale il terrorismo di destra è cresciuto del 320% negli ultimi cinque anni – sottolinea il ricercatore – In Italia sono oltre 200 gli attentati e le aggressioni di stampo fascista avvenuti dal 2014 ad oggi. Sono circa 5000 le pagine Facebook riferibili a gruppi di estrema destra, che dal 2015 al 2018 hanno prodotto circa due milioni di post».

Le possibili soluzioni

«La narrazione risulta cruciale nel giustificare la violenza contro gli altri – insiste Bozzetti – Per questo attuare interventi, anche ad hoc, di contro-narrazione diventa fondamentale. Un primo passo dovrebbe essere quello di decostruire i legami tra radicalizzazione e polarizzazione nel dibattito pubblico». In questo senso, il ruolo dei media è estremamente importante.
Non è un caso che la narrativa utilizzata dalle forze xenofobe, ad esempio, alle violenze verbali facciano spesso seguito quelle fisiche, come dimostrano i continui attacchi avvenuti nel Lazio ai danni di strutture di accoglienza. Le dinamiche, in particolare, sono ricorrenti: l’identificazione di un capro espiatorio e la retorica del “noi contro voi”.

Ci sono anche altre agenzie che possono intervenire. Una è la scuola e più in generale le istituzioni formative, che possono fornire strumenti per verbalizzare la rabbia senza agirla.
Importante è anche il monitoraggio e il dialogo di chi compie interventi sociali con le istituzioni locali, affinché si identifichino le problematiche di alcune zone del territorio.

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