«La particolarità rispetto ad altre esperienze anche molto forti che ci sono state a Bologna è che si partiva da questa strana idea, allora, di voler lavorare; che era un contro senso perché uno degli slogan era uscire dal lavoro, uscire dalla produzione, uscire dalla produttività, dalla messa a valore di qualsiasi cosa tu faccia come oggetto economico. Questi soggetti, questi ragazzi e queste ragazze, volevano fare teatro, volevano fare danza, ma senza averne le competenze, non ancora, e però volevano farlo e basta».
I ragazzi e le ragazze di cui si parla sono coloro che, il 5 novembre 1995, decidono di occupare gli spazi del Teatro dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, dando inizio alla vicenda del Teatro Polivalente Occupato (Tpo) di via Irnerio. L’esperienza dentro l’Accademia durerà cinque anni, fino allo sgombero del 21 agosto 2000, durante i quali lo spazio si apre alla città diventando uno dei luoghi di aggregazione culturale più rilevanti a livello nazionale e dichiarandosi spazio di sperimentazione politica ed esistenziale per la generazione che vedrà soffocate le proprie istanze nelle giornate di Genova 2001.
“Trent’anni di desiderio”, il progetto che ricorda l’occupazione del Tpo di via Irnerio
A questi cinque anni di autoformazione e di creazione artistica alternativa al circuito ufficiale Anna De Manincor e Fabiola Naldi, in occasione del trentesimo anniversario, dedicano il progetto “Trent’anni di desiderio. 1995-2000: TPO-Teatro Polivalente Occupato e Accademia delle Belle Arti di Bologna” innanzitutto per portare all’attenzione di una nuova generazione di studenti, studentesse, operatori e operatrici culturali la fondamentale attività di quella occupazione.
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«Abbiamo sentito, essendo noi anche docenti all’interno dell’Accademia, la necessità di andare a rivangare quel periodo fondamentale che sono stati gli ultimi 10 anni del 900, per la città di Bologna, ma non solo – spiegano Naldi e De Manicor – Non è solo Bologna che mette in atto un insieme di linguaggi liberi, assolutamente autonomi. Quindi i primi 5 anni del Tpo sono stati oggettivamente gli anni di una costruzione linguistica visiva, contenutistica di un certo tipo. Alcune delle persone che insegnano qui erano parte di quell’occupazione. Oggi che siamo tutti adulti, ci siamo ritrovati a dover in qualche modo non solo riflettere su quello che è stato, ma anche a fare in modo che quel dialogo arrivi a una generazione che invece non ha la minima idea di cosa significa costruire quel genere di immaginario».
Il primo appuntamento del progetto sarà lunedì 31 marzo, dalle 14 alle 18 con Massimo Carozzi, artista e sound designer, e con Agnese Cornelio, autrice e regista, che presentano l’audio documentario “Cinque anni di desiderio”, titolo a cui si è ispirato il progetto stesso, che avevano realizzato per Tre Soldi Radio Tre, e che dialogheranno con i partecipanti di questa forma di narrazione in presa diretta.
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Tpo 1995-2000
«Sono 5 anni precisi su cui abbiamo deciso di concentrarci e su uno spazio preciso che è il teatro, che poi è divenuto anche luogo in cui si fanno normalmente lezioni – racconta Naldi – Il Teatro Polivalente Occupato ha una vita ancora in corso, ma si è diversificata dalla prima occupazione, con la sua natura di esistenza e di desiderio. Dal 2000 al 2007 si spostò in viale Lenin e poi successivamente in via Casarini». «Una precisazione importantissima – osserva De Manincor – Il Tpo di via Irnerio è stata l’unica occupazione di quelle nominate. Gli altri due Tpo si chiamano nello stesso modo, ma sono due esperienze diverse perché sono due gestioni di spazi che sono stati concordati. Il Tpo di via Irnerio è stata una vera e propria occupazione, un atto illegale e questa è una cosa curiosa, anche delicata da affrontare con degli studenti e delle studentesse che hanno la stessa età che avevano le persone che hanno occupato allora. Non si tratta di raccontare una storia di vecchi che mitizzano la loro giovinezza come se fosse speciale, ma si sottolineare la consapevolezza degli occupanti di allora. Si decideva che le eventuali conseguenze erano affrontabili e valeva la pena rischiare, valeva la pena essere nel torto. Non si poteva dire di avere diritto a questo ma si aveva un desiderio bruciante e una necessità impellente di spazio fisico».

Il teatro fu occupato da diversi gruppi di persone, i teatranti occupanti. L’intenzione iniziale era di fare un’occupazione lampo. La progettazione arrivava fino a tre giorni dopo. Poi in quei tre giorni si è formata una assemblea molto grande tra studenti, non studenti, giovani lavoratori, giovani disoccupati. E a quel punto l’assemblea ha deciso di proseguire l’occupazione.
«Non erano neanche compagnie teatrali, erano dei gruppi che decidevano che volevano fare teatro o danza o improvvisazione e performance, ma non erano costituiti, non facevano parte del mondo teatrale, qualcuno di loro studiava teatro anche in maniera strutturata, però nessuno di loro andava in scena. L’idea era avere uno spazio per fare le prove, ma prima ancora delle prove c’è l’ideazione e l’ideazione ha bisogno di un momento di vuoto in cui non sai niente di quello che accadrà, non sei giudicato e stai con i tuoi simili a far nascere le cose», raccontano De Manincor e Naldi.
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L’esperienza fu influenzata dalla lettura di “T.A.Z” (Zone Temporaneamente Autonome) di Hakim Bey (1991), il primo che in qualche modo invitava a reclamare lo spazio autonomo, “reclaim the city”. Un atteggiamento tipico di tutti i fenomeni del secondo ‘900, perché i situazionisti e gli indiani metropolitani adottavano questa pratica, che consisteva nel fare politica culturale più che attivismo politico. «Questa non era una cosa solo bolognese – sottolinea Naldi – Era un momento molto particolare, quello di una generazione alla quale apparteniamo io e Anna, che cercava luoghi in cui potersi esprimere, zone di vuoto pneumatico in cui poter agire, a proprio rischio e pericolo, ma valeva comunque la pena. Era probabilmente un rischio anche differente rispetto ad oggi: per quanto radicale anche in quel momento non c’era lo stesso impatto e lo stesso rigurgito ideologico che invece è tornato ora. La caratteristica forse di Bologna, a differenza delle altre città, è che aveva un’anima artistica all’interno dei progetti formativi, dal DAMS alla stessa Accademia: non dimentichiamoci che nel ‘77, gli indiani metropolitani per metà vengono dall’Accademia di Belle Arti di Bologna. Questa città, a differenza delle altre città italiane, pur con la stessa perseveranza, ha avuto un aspetto di espressività creativa più ampia e forse più legata alle avanguardie storiche artistiche. Un atteggiamento creativo come non se ne era mai visto e che ha reso questa città in quel momento irripetibile».

E nel momento in cui lo spazio si è trovato, e di conseguenza anche il tempo, per fare le cose insieme, tutte le persone che vi hanno partecipato hanno trasformato ciò che pensavano di voler fare, cioè hanno inventato un’attività per il loro futuro, che in molti casi è diventato un lavoro, ma che non era l’idea iniziale. «Questo per noi è interessante da discutere con i ventenni d’oggi – sottolineano le ideatrici del progetto – ovvero darsi la possibilità di non sapere cosa si vuole che accada, di non sapere come poter costruire quel futuro, se davvero è quello che si vuole, anche di non saperlo spiegare. Il percorso non può essere trasmesso né è fatto di tappe che si possono spuntare come fatte. Tutti gli step che si affrontano permettono che nel frattempo accada quello che per ognuno è necessario o quello che si rivelerà essenziale al proprio sentirsi nel centro delle cose, di andare al motore di quello che ha fatto esprimere questo desiderio». In questo senso si praticava l’autoformazione. C’era una specie di allergia alle istituzioni, che si traduceva nel pensiero “non posso diventare una performer dentro una scuola, perché diventerei un’emanazione di quella scuola”. Nemmeno si voleva esprimere quel desiderio come fosse una velleità: “sono una coreografa però devo avere un lavoro che mi permetta di farlo”. «In altri paesi la formazione e lo studio sono retribuite – concludono Naldi e De Manicor – In Italia questa cosa non esiste, i momenti in cui passi da una performance a un’altra sono considerati lavori intermittenti».