«È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo». La massima attribuita talora a Slavoj Žižek e talora a Fredric Jameson, riportata da Mark Fisher nel suo libro “Realismo capitalista”, è una constatazione con cui chi si rende conto dell’oppressione e delle sofferenze generate dall’attuale sistema socio-economico si deve misurare.
Il capitalismo sembra fatto in modo da non poter nemmeno immaginare alternative, il famoso TINA (There is no alternative) di Margaret Thatcher. Ma è davvero così?
A provare di immaginare alternative al capitalismo è stato FestiValori, il festival di Valori.it che si è svolto la settimana scorsa a Modena. All’interno del programma si è svolto l’incontro “Non siamo condannati a morire capitalisti”.

Le alternative al capitalismo passano per consapevolezza e produzione

A partecipare all’incontro del festival sono stati, moderati dal direttore di Valori.it Andrea Barolini, l’economista ed ex ministro Fabrizio Barca e Clara Mattei, docente di Economia alla New School for Social Research di New York e autrice del libro “Operazione austerità” (Einaudi).
Ad una domanda diretta, quest’ultima ha fornito la propria “ricetta” su come sia possibile sfatare la massima citata sopra, cioè su come sia possibile prima immaginare e poi praticare alternative al capitalismo.
«Io credo – ha esordito Mattei – che i cambiamenti avvengano quando si riesce a partecipare concretamente alle iniziative economiche e politiche, quindi ci deve essere innanzitutto una grossa rivendicazione di democrazia economica».

La docente di economia comincia il suo ragionamento smontando la retorica secondo cui le decisioni in materia economica debbano essere prese dagli esperti. Per quanto neutrali essi si dichiarino, infatti, «se capiamo come funziona il capitalismo, comprendiamo quanto sia incompatibile col concetto del bene di tutti, perché è un sistema che prevede classi in opposizione, perdenti e vincitori, e le politiche economiche sono fatte a favore dei vincitori. Soltanto qui negli Stati Uniti sappiamo che gli abbienti pagano molte meno tasse rispetto ai lavoratori e che lo Stato costantemente favorisce investimenti togliendo i rischi ai privati e tagliando tutte le risorse sociali, a partire dal welfare».

Il primo passo, dunque, è riuscire a capire come funziona il sistema capitalistico, perché non è vero, a dispetto della narrativa che vuole persuaderci, che il capitalismo c’è sempre stato ed è una manifestazione intrinseca che abbiamo di essere uomini economici razionali.
«Dobbiamo invece capire che questa spiegazione è dovuta a teorie economiche che appositamente rimuovono la questione del perché alcuni sono lavoratori e altri proprietari del capitale dal problema di cui si deve occupare l’economista», sottolinea Mattei.

L’accademica della New School for Social Researcg di New York, poi, spiega la caratteristica fondamentale del capitalismo: la dipendenza dal mercato. Citando concetti e categorie marxiani, Mattei spiega l’oppressione generata dalla compulsione della dipendenza del mercato. «Noi soffriamo del fatto che abbiamo costruito un mondo che ci domina – rimarca Mattei – Rispetto alla logica del sistema i nostri bisogni sono secondari e subordinati alla macchina del mercato che ci schiaccia».
La morsa principale del capitalismo, dunque, è la dipendenza dal mercato tale per cui noi siamo costretti a dover in qualche modo sopravvivere dovendo comprare le merci che dobbiamo consumare.

Di qui l’economista passa alle possibili ricette su come combattere la morsa del capitalismo.
«L’idea originaria è quella di riappropriarsi della soggettività nella capacità di produrre, quindi pensare consciamente e democraticamente il processo di produzione – spiega Mattei – La dipendenza dal mercato fa sì che noi siamo intrappolati in una sorta di compulsione impersonale, cioè leggi cieche che ci avvolgono. Quello che dobbiamo fare è organizzare la nostra esistenza materiale, passando dall’inconscio e impersonale al conscio, personale e collettivo e fare delle esperienze di democrazia economica».

Gli esempi in giro per il mondo non mancano, ma la consapevolezza che li accomuna è che la distribuzione di risorse passa attraverso la produzione delle stesse.
La docente però mette in guardia: «È una lotta, perché qualsiasi tentativo di evadere la dipendenza dal mercato è un’ambizione che non fa comodo a coloro che attualmente beneficiano dal sistema capitalistico. Quindi bisogna sapere che non è una strada facile da percorrere, ma ci sono oggi tante realtà che si ispirano all’idea di emanciparci proprio dalla compulsione del mercato, che è la prima forma di oppressione specifica del capitalismo».

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