“La casa è un diritto, ammesso e non concesso…”, cantava il Comitato, trio di rapper milanesi, ormai una trentina d’anni fa. Da allora il problema abitativo non ha fatto che acuirsi, fino a diventare una vera e propria emergenza nazionale. La questione riguarda soprattutto le grandi città e la nostra non fa certo eccezione.  Oggi Bologna, agli occhi di chi è arrivato qualche decennio fa, pare irriconoscibile: il centro è ormai diventato un enorme taglierificio di mediocre qualità, la colonna sonora più ricorrente il rumore delle rotelline dei trolley dei turisti mordi e fuggi scesi dai voli Ryanair che atterrano ogni giorno a decine nel capoluogo felsineo. L’affitto breve impazza: chi arriva in città per sostare un paio di giorni, cercando una sistemazione abitativa non ha che l’imbarazzo della scelta, per chi viene a lavorare o studiare la scelta, non di rado, è fra il dormire in macchina o il tornarsene a casa.  

L’aumento degli sfratti (solo nel 2024 ne sono previsti 4000) e degli sgomberi, il costo della vita lievitato nel periodo post covid a livelli mai raggiunti prima, ha aumentato la platea dei cittadini indigenti in balia di affitti insostenibili. Se poi a cercare casa è uno straniero, magari  di pelle nera, ciò che per molti è difficile, per alcuni diventa impossibile. Chi vuole bene a questa città, dovrebbe iniziare a togliergli dalle spalle il peso di una mistificazione che altrimenti ci impedisce di leggerla e capirla nelle sue ambiguità più occulte.  Non si guarisce una malattia, se prima non la si riconosce.

La domanda è: quali politiche abitative sono oggi in campo per contrastare questo fenomeno che è, ricordiamolo sempre, un problema sociale e non di ordine pubblico. L’abbiamo posta, insieme ad altre, a Emily Clancy, vicesindaca con delega alla casa, e a Hend, madre e attivista, tra le persone sgomberate in via Gandusio qualche anno fa, che ci sono venute a trovare in studio.

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