L’epiteto proverbiale che si è conquistato Bologna, quello di “grassa”, è dovuto alla sua cucina tutt’altro che light, che simboleggiava una certa opulenza e un certo “odor di benessere”, come cantava Guccini.
Scene, dati e fatti degli ultimi tempi, tuttavia, suggeriscono un’immagine diversa, più “magra” almeno per una cospicua fetta della popolazione. Lo dicevamo qualche mese fa con l’analisi sulla “Bologna elitaria” e da allora sono arrivate solo conferme, anche se avremmo preferito non avere ragione.
L’impoverimento dei bolognesi a causa di rendita e inflazione: ecco Bologna la magra
Per la prima volta dopo tanto tempo, tutti i sindacati – da quelli confederali a quelli di base – sono concordi nel proclamare uno sciopero (che si terrà il 6 novembre) dei dipendenti comunali. La ragione: l’insufficienza del salario per affrontare il costo della vita in città.
Tra i dipendenti pubblici, però, quelli comunali non sono gli unici che se la passano male. La Regione è stata costretta a stanziare risorse e fare una ricognizione di alloggi pubblici sfitti per scongiurare che i professionisti della sanità, a partire dagli infermieri, cercassero lavoro altrove perché impossibilitati a trovare un alloggio a prezzi accessibili. L’assessore regionale al Lavoro, Giovanni Paglia, ha osservato che il rischio è la tenuta stessa del servizio sanitario, già traballante.
Allo stesso modo, Tper fa fatica a trovare autisti perché quelle che un tempo erano considerate paghe dignitose oggi non consentono più di avere una vita senza crucci economici. Se a ciò aggiungiamo che guidare un bus nella città tempestata di cantieri, con passeggeri innervositi e automobilisti impazziti è fonte di grandissimo stress, ecco che, a quelle condizioni, a pochissimi viene la voglia di cogliere l’opportunità di un lavoro sicuro.
Se queste sono le condizioni nel settore pubblico, che solitamente è più tutelato, immaginiamoci cosa accade nei settori privati. La scena più vergognosa è quella delle tende sotto il portico della Chiesa dell’Annunziata. Ad accamparsi non sono migranti espulsi dal circuito di accoglienza o studenti che protestano contro il genocidio in Palestina. Sono i cosiddetti “working poors”, persone che pur avendo un lavoro vivono in condizioni di povertà.
La loro quota, secondo il recente report dell’Istat sulla povertà, è in aumento in tutta Italia, ma ovviamente si fa più sentire dove il costo della vita è più alto.
Nelle interviste agli accampati pubblicate sulla stampa locale emergeva un dato: un lavoro a Bologna si trova, ma la casa resta inaccessibile. Ciò significa due cose: da un lato, il mercato immobiliare, in particolare quello dell’affitto, è impazzito a causa del noto problema degli affitti turistici, che di riflesso hanno indotto a rincari speculativi anche i proprietari degli alloggi per la locazione tradizionale. Un bilocale di pochi metri quadrati oggi in città tocca facilmente gli 800 euro al mese.
Dall’altro, però, significa che gli stipendi sono bassi, le paghe oggi sono da fame. E ciò avviene sia perché in Italia non esiste più un meccanismo automatico di indicizzazione degli stipendi con l’inflazione, sia perché a Bologna ad essersi sviluppati negli ultimi tempi sono soprattutto attività economiche a basso valore aggiunto, contraddistinte da precarietà e intercambiabilità della forza lavoro. Tutti elementi di ostacolo ad una forza contrattuale.
Come abbiamo già avuto modo di dire, questi fenomeni non sono presenti solo a Bologna, ma colpiscono un po’ tutti i grandi centri urbani, in particolare quelli che negli ultimi vent’anni hanno inseguito politiche di gentrificazione e attrazione turistica, esponendosi più o meno consapevolmente all’arrivo e alla morsa di capitali.
Ciò che sembra mancare oggi è la leva per ripristinare l’equilibrio, in particolare per frenare la discesa verso l’impoverimento di una parte cospicua della popolazione. I rimpalli delle responsabilità e della titolarità di azione tra governo centrale ed enti locali non risolve certo la situazione. E mentre le società partecipate macinano utili che servono alla componente pubblica a ripianare gli ammanchi dei trasferimenti dello Stato, a pagare quegli extraprofitti sono paradossalmente quei cittadini che poi avrebbero bisogno del welfare pubblico.







