Appuntamenti, interviste, presentazioni, recensioni di un mese di blue notes in città: sfogliando ogni giorno il festival: appuntamento con “Sostiene Bollani”.

Il jazz torna a tatro: al Comunale di Ferrara lo Stefano BollaniTrio per celebrare 10 anni di attività. Ascolta da Salt Peanuts l’audio/presentazione sottostante



Terza cartolina della storia del festival bolognese (audio dal film My Main Man, regia Germano Maccioni): i concerti nei quartieri degli anni ’70, da Phil Wood all’Art Ensemble of Chicago, da Art Farmer a Cecil Taylor, da Jean Luc Ponty fina a Renèè Thomas, ovvero come si costruisce una politica culturale. Un amarcord di quel momento magico da Alfredo.

Correvano gli anni ’60 e il festival del jazz di Bologna era già considerato come una delle piazze più blasonate dell’Europa delle blue notes, al pari di Stoccolma, Lubiana, Berlino, ecc. Qui approdarono la band di Charlie Mingus con Eric Dolphy, il duo Gato Barbieri-Don Cherry, Chet Baker e tantissimi altri grandi artisti. Alla fine del decennio gli organizzatori si inventarono una fantastica edizione con musicisti del calibro di Gerge Russell e la sua Electronic Sonata, Lucky Thompson e un grande bebop, Ornette Coleman e Dewey Redman con le Crisis musicali, Robin Keniatta e la nuova musica “africana”. Tra gli altri si presentò un giovane musicista reduce dai “Jazz Messenger” per un recital per solo piano: Keith Jarrett. Il pubblico bolognese scoprì allora l’incredibile talento di “Snake” che portò il teatro al visibilio generale (tra gli altri ad applaudire anche un certo Manfred Eicher che lo contattò per la sua nuova etichetta ECM…). Quello fu il mio primo festival e rimasi stregato da questa musica così identificabile ma anche così ricca di mille volti tra loro tanto diversi.

In quegli anni arrivò al Teatro Comunale il sovrintendente Badini coadiuvato dal direttore artistico Trezzini. Furono anni di pionierismo divulgativo, dove il jazz veniva promosso con la serie dei “concerti nei quartieri”. In realtà la formula era semplice: un gruppo veniva assoldato per un numero di set da effettuarsi in luoghi non canonici come appunto nelle neonate sale di quartiere, nei circoli ARCI, nei dopolavori, nei paesi della provincia, ecc. Se la Montagna non va da Maometto è il jazz che si porta nei luoghi popolari. Grandi nomi come Art Farmer, Cecil Taylor, Johnny Griffin, René Thomas, Lou Bennet, Phil Wood ed altri si cimentarono in questa avventura. Mi ricordo la sorpresa del violinista Jean Luc Ponty quando, nell’allora sede Arci di via del Lino, venne interrotto da un anziano signore che abbracciandolo gli chiese “un valzer”. Ma l’esperimento, nonostante la fatica degli inizi, fertilizzò un nuovo interesse per il jazz, in particolare in nuove generazioni alla ricerca di una colonna sonora per la loro ribellione culturale.

Furono allora anche gli anni del festival da Palasport gremito di pubblico ad ascoltare l’incredibile incipit di Thelonious Monk in Round Midnight, l’irrompere del giovane John Surman e il suo “Trio”, la dolce poesia del cantore cieco Rahasan Roland Kirk, le ultime apparizioni della Big Band del mitico Duke Ellington. Non tutti in città si seppero rapportare alla domanda espressa da questo nuovo pubblico, al contrario c’è chi rimpianse l’aristocrazia di certi salotti dei “bei tempi”, chi addirittura guardò a questi ragazzi come quasi ad intrusi mal sopportati. Invece di rispondere anche alle inevitabili ingenuità di questa nuova istanza di massa, alcuni ebbero un atteggiamento di chiusura e di autoreferenzialità.

L’alternarsi poi al Teatro Comunale della dirigenza (Badini alla Scala e Trezzini alla Fenice) con l’arrivo del sovraintendente Festi chiuse quella magnifica stagione. repentinamente venne attuato  un cambio radicale di programmazione con  nomi e prezzi poco appetibili per gli under 40. L’alchimia sfumò, e ben presto si manifestarono grandi problemi di tenuta. Alla fine anche il festival chiuse i battenti lasciando orfana una città con le sue schiere di appassionati. Da segnalare anche un tentativo negli anni ’80 di rivitalizzare la chermesse alla multisala di via dello Scalo con diversi musicisti dell’etichetta “Blu Note” (Da Joe Albany a Jackie McLean), ma la cosa non ebbe seguito. Poi finalmente  arriva la gestione dell’attuale Bologna Jazz Festival che è arrivata felicemente alla sua ottava edizione, con una formula più duttile tra teatri, cantine, caves e conservatorio.

Bene hanno fatto gli organizzatori a riprendere uno sforzo per allargare i confini del pubblico jazzistico in città: da mettere in conto le difficoltà della partenza (anni di vuoto non sono facili da colmare), da pensare anche le opportune correzioni del work in progress, da trovare il difficilissimo equilibrio tra i costi di produzione e quelli dei biglietti. Tuttavia le sale affollate che fino ad oggi hanno accompagnato un mese di concerti (quasi uno al giorno!)  sono un’ottima ed incoraggiante controprova che a Bologna non resiste solo la cerchia dei “soliti noti” del jazz, ma che c’è anche un potenziale di attenzione diffusa per promuovere e diffondere questa musica che non perde di fascino e magia anche dopo più di un secolo di vita.


Programmi.

18 Novembre Teatro Comunale di Ferrara – ore 20.30

STEFANO BOLLANI DANISH TRIO

Stefano Bollani, pianoforte, Jesper Bodilsen, contrabbasso, Morten Lund, batteriaSpengne le 10 candeline questo trio del conosciutissimo pianista italiano, al tempo ottimo improvvisatore ed efficace enterteinment, come nelle migliori tradizioni jazzistiche. Dalla televisione di “sostiene Bollani” al teatro ferrarese, le mille anime di un poliedrico artista.

Ascolta  l’introduzione al concerto di Stefano Bollani + un segmento del film My Main Man con il racconto del critico Filippo Bianchi e dell’organizzatore Cicci Foresti sull’ “era Badini” al Teatro Comunale