Ha colpito molto, la settimana scorsa, che tra le rivendicazioni per le occupazioni delle scuole a Bologna figurasse il disagio psicologico provato da studentesse e studenti. Ai nostri microfoni, una di loro ha sintetizzato efficacemente la questione con una frase: «ci sentiamo oppressi dalle aspettative».
Giusto ieri, in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Accademico alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, una studentessa universitaria ha rivelato di aver provato un grande senso di fallimento nel non aver superato il test di ingresso alla Facoltà di Medicina e di aver pensato di non meritare di vivere.

I giovani e l’ansia da prestazione nella società della performance

Un sistema di istruzione e più in generale una società che punta tutto sulla performance sta facendo aumentare il senso di inadeguatezza nelle giovani generazioni, facendo insorgere anche disagi e disturbi di natura psicologica. Soprattutto dopo la pandemia, infatti, sono in forte aumento i disturbi ansiosi e depressivi nei giovani.
A fare una fotografia del fenomeno è, su L’Essenziale, la giornalista Alice Facchini, che ha firmato l’articolo intitolato L’ansia da prestazione che affligge gli studenti a scuola e non solo“.
Facchini affronta il tema del gifted kid burnout, l’esaurimento che colpisce i ragazzi e le ragazze più dotati rispetto alla media, che negli Stati Uniti è un fenomeno che prevede percorsi dedicati.

Più in generale, però, è l’impostazione stessa del sistema educativo e la sua standardizzazione funzionale al sistema produttivo a generare ansia da prestazione nelle giovani generazioni.
«L’attenzione alla prestazione e al risultato, anche nel mondo della scuola, è molto aumentata – osserva la giornalista – Ad esempio abbiamo visto che il governo Meloni ha cambiato il nome del Ministero dell’Istruzione, aggiungendo il Merito, ma ci sono tante altre cose che si muovono nella direzione di dare attenzione ai risultati».

È lunga la lista degli istituti e dei provvedimenti concentrati sulla performance cui i giovani sono sottoposti. A partire dal bonus cultura per i 18enni, che ora verrà dato solo a chi prenderà il massimo dei voti alla maturità, passando dalle prove Invalsi alle certificazioni linguistiche, «a volte attività formative facoltative che mettono continuamente alla prova le capacità dei ragazzi – osserva Facchini – fino ad alcuni licei che per selezionare i propri iscritti chiedono di superare un test come se fossero dei corsi universitari e valutano anche la media dei voti in terza media».

Il focus sulla prestazione, soprattutto tra i più piccoli, genera l’idea che l’amore nei loro confronti dipenda dalle loro performance e l’ansia provata si trasforma in peso anche nell’età adulta, quando ci si sente in dovere di mantenere standard alti. «Quindi ogni fallimento è vissuto come una sconfitta personale – sottolinea la giornalista – non come un errore da cui si può imparare. Anche questo mette a rischio la loro salute mentale».

Il fenomeno apre una riflessione sulla società della performance e sull’impostazione del sistema scolastico sulla valutazione stringente di parametri funzionali a un preciso modello produttivo, oltre alla retorica del merito che non tiene in considerazione le condizioni socio-culturali ed economiche di partenza.
«Sicuramente questa non è la strada giusta – osserva la giornalista – soprattutto in una fase di sviluppo bisognerebbe cercare di aiutare i ragazzi e i bambini a sviluppare quelle che sono le proprie peculiarità. Ognuno ha i propri punti di forza e sarebbero quelli da dover valorizzare senza necessariamente mettere in risalto l’importanza di un voto, che è un numerino che non rappresenta la personalità di ciascuno».

ASCOLTA L’INTERVISTA AD ALICE FACCHINI: