Il conflitto va avanti da due anni, ma negli ultimi giorni, con la presa della capitale del Darfur settentrionale El Fasher da parte delle milizie Rsf, la situazione viene descritta come apocalittica, con uccisioni di massa, violenze, aggressioni, saccheggi, rapimenti, 14 milioni di sfollati e 30 milioni di persone che necessitano di assistenza umanitaria urgente.
È la situazione in Sudan, Paese dilaniato da una guerra civile che vede entrambe le parti in causa, appunto le Forze di Supporto Rapido (Rsf) e l’esercito regolare, accusate di crimini di guerra e atrocità.

Perché c’è la guerra civile in Sudan?

Le cause della guerra in Sudan, cominciata nel 2023, sono principalmente legate al conflitto di potere tra l’esercito regolare e le Forze di Supporto Rapido (Rsf), due fazioni che fino a poco prima avevano governato insieme. Tutto è cominciato con una frattura insanabile tra i loro leader, il generale Burhan (Saf) e il generale Hemetti (Rsf), e l’incapacità di raggiungere un accordo su come integrare le Rsf nell’esercito regolare, come previsto dal percorso verso un governo civile.
In realtà la guerra civile in Sudan si inserisce in un contesto di instabilità e colpi di Stato, con un primo golpe nel 2019 e un secondo nel 2021, che avevano ulteriormente compromesso la stabilità del Paese.

«Dopo la caduta di Omar Al Bashir nel 2019, si era aperta una transizione verso un governo civile – spiega ai nostri microfoni Francesca Caruso, analista ed esperta di conflitti in Africa – I due generali, nel 2021, compiono un colpo di Stato contro i civili al governo. I militari restano al potere e la diffidenza reciproca cresce».
Nell’aprile 2023 le tensioni scoppiano in un conflitto, ma l’analista sottolinea che le ragioni alla base sono molto più antiche, come l’emarginazione storica delle periferie, le dispute sulle terre tra comunità arabe e non arabe, l’uso di milizie locali al posto dello Stato e interessi economici enormi, come quello attorno alle miniere d’oro.

Chi sono le milizie Rsf?

Le Forze di Supporto Rapido (Rsf), in realtà nascono come trasformazione delle milizie Janjaweed, utilizzate da Al Bashir per reprimere le rivolte in Darfur nel 2003. Nel 2013 divennero una forza ufficiale. «Non sono un esercito nazionale, ma una milizia con struttura militare, grandi risorse economiche e protezione politica – sottolinea Caruso – controllano miniere d’oro, che vendono agli Emirati. Arruolano giovani in estreme difficoltà umane ed economiche e addirittura inviano truppe anche all’estero, come in Yemen per la coalizione saudita».
È nel 2023 che entrano in conflitto con l’esercito regolare, portando nella capitale le stesse pratiche già sperimentate in Darfur: saccheggi, check-point, occupazione di case e violenze contro i civili.

Già dallo scoppio della guerra, le Rsf sono state accusate di massacri mirati, in particolare contro i Masalit, una popolazione non araba che viveva nella città di El Geneina.
«Le Rsf di solito reclutano anche milizie locali, che spesso sfuggono al controllo di Heti – racconta l’analista – E questo è un elemento che può spiegare in parte anche la violenza. Attorno a El Fasher assediano campi dove oggi si registrano livelli di malnutrizione e fame vicino alla carestia».
Le Rsf, quindi, sono sia una forza militare che politica, alla base della cui espansione, però, c’è anche un supporto esterno.

Gli interessi degli Emirati Arabi e dei Paesi del Golfo in Sudan

«La guerra in Sudan mostra proprio come gli Stati del Golfo, soprattutto Emirati Arabi e Arabia Saudita, abbiano oggi un ruolo abbastanza chiave – sottolinea Caruso – In particolare gli Emirati sono accusati di sostenere le Rsf fornendo armi e droni attraverso il Ciad».
Il rapporto, però, non sarebbe soltanto militare, ma anche economico. Buona parte dell’oro esportato dalle miniere controllate dalle Rsf verrebbe esportato proprio negli Emirati Arabi Uniti, che lo raffinano.

Le ragioni degli interessi emiratini sul Sudan sono essenzialmente due: «Da un lato per la posizione strategica, perché il Sudan si trova tra il Sahel, il Mar Rosso e il Corno D’Africa – osserva Caruso – ed è ricchissimo di terre agricole e risorse naturali. Ma c’è anche una ragione politica, perché una transizione democratica di successo in Sudan potrebbe ispirare anche altri movimenti nel mondo arabo e ciò storicamente un problema per le monarchie del Golfo».
Quando si tentò la costituzione di un governo civile in Sudan, i Paesi del Golfo bloccarono miliardi di aiuti, mentre con la presa del potere da parte dei militari riprese la cooperazione.

ASCOLTA L’INTERVISTA A FRANCESCA CARUSO: