Grazie alla figura chiave di Sakine Canzis, uccisa in circostanze misteriose a Parigi, le donne curde hanno iniziato a ribellarsi all’oppressione patriarcale e oggi hanno intrapreso la lotta armata per una società egualitaria. “Girls’ war”, il documentario di Mylene Sauloy, racconta in modo accorato l’epopea delle combattenti curde in Rojava.
Il 10 gennaio 2013, nel cuore di Parigi, vengono uccise tre donne curde. La notizia assume subito tinte inquietanti, se non altro perché un triplice omicidio in una capitale europea è un fatto eclatante e strano. A premere il grilletto, con ogni probabilità, sono stati agenti dell’intelligence turca che hanno eliminato uno dei più grandi problemi per il regime: Sakine Canzis. L’attivista, alta dirigente del Pkk, ha avuto un ruolo chiave nel processo di emancipazione femminile e nell’arruolamento delle donne nella lotta armata.
La sua storia è l’incipit di “Girls’ war“, il documentario di Mylene Sauloy che si è aggiudicato una menzione speciale al Terra di Tutti Film Festival.
La storia di Canzis non può non tenere conto della sua formazione. Ella, infatti, apparteneva alla minoranza alevita, una religione e una filosofia in cui uomini e donne sono sempre stati uguali secondo natura e in cui la religione non invade ogni cosa e non organizza la società.
L’influenza delle donne alevite nel Pkk è molto forte. Il leader del partito curdo dei lavoratori, Abdullah Ocalan, capisce che una rivoluzione ha bisogno del sostegno delle donne e questo passa attraverso la loro emancipazione.
Negli anni 70 l’estrema sinistra cresce in tutto il mondo, Kurdistan compreso, ma nel 1980 c’è un colpo di stato militare, che porta in carcere migliaia di curdi. Sakine è in una prigione femminile, e organizza le persone contro la tortura, costruisce una rete di solidarietà e di dignità e diventa un simbolo della resistenza delle donne.
“Fino a quel momento – racconta ai nostri microfoni Sauloy – le donne si sottraevano alla violenza di Stato suicidandosi. Con Sakine hanno cominciato a resistere, a dire no e questo è un grande cambiamento nell’atteggiamento delle donne nei confronti alla politica”.
Il movimento, il Free Women’s Party, comincia proprio nella prigione dove è incarcerata Sakine, comincia nella prigione di Diyarbakır quando le donne non si suicidano più e resistono alla tortura.
Un passaggio fondamentale, dunque, che fa capire perché le donne curde hanno scelto la lotta armata e oggi sono impegnate nella guerra all’Isis sia in Siria che in Iraq. Una scelta che comunque è molto forte e sfata il luogo comune che vuole le donne remissive e pacifiche. “Le donne combattono per difendere un progetto di società – spiega Sauloy – non è un progetto militare, è un progetto politico difeso con le armi, che è molto differente”.
In Iraq e Siria, inoltre, c’è stato un periodo di violenza specifica contro le donne, l’Isis è solo l’immagine più brutale di questa violenza, con stupri di gruppo e vendita di donne rese schiave, ma a praticare violenza è anche la Turchia. In Iraq e Siria, dunque, le donne danno vita a un movimento di autodifesa.
Il progetto politico, quindi, si incontra con la necessità di autodifesa delle donne, e le due cose vanno insieme: un progetto di autodifesa che al tempo stesso costruisce una società diversa durante una guerra. “Questo è qualcosa di totalmente inedito”, osserva la regista.
L’esperimento delle donne curde, però, non è gradito a nessuna delle forze in campo in quel martoriato pezzo di mondo. “Nessuno vuole la democrazia o le donne libere nell’area – sottolinea Sauloy – La Turchia non vuole, in Siria c’è Al Qaeda con l’esercito di liberazione, l’Isis, Assad, più i russi, francesi e americani e nessuno vuole le femministe, nessuno vuole la democrazia. L’Arabia Saudita, che supporta l’Isis, non vuole, la Turchia non vuole”.
Questo spiega perché il Rojava, invece di essere un’idea di possibile soluzione, un esperimento di possibile democrazia nell’area, diventa un problema per tutti.
Eppure il Rojava oggi è l’unico piccolo pezzo di terra dove le persone vivono normalmente, insieme, cristiani e non cristiani, sunniti e non sunniti, senza farsi la guerra.
Anche se gli Stati non vogliono riconoscerlo, però, il movimento delle donne ha una grossa influenza nella regione: il 15% delle donne arabe si sono arruolate nell’esercito, donne che vengono dall’Egitto, dall’Arabia Saudita e da ogni dove, chiedendo aiuto per costruire un movimento, per imparare come fare.