Nell’est della Repubblica Democratica del Congo i confini sono sempre stati qualcosa di fumoso, presenti sulla carta ma impercettibili per le popolazioni locali a causa dell’essenziale contrasto tra gruppi e forze armate ostili che da decenni si contendono il controllo della regione. Questa “guerra a singhiozzi” può risultare, ad un occhio disattento, come una semplice disputa fratricida in un paese sempre in conflitto con sé stesso, ma la verità è ben più complessa e sfaccettata. I vari attori in campo sono mossi da interessi numerosi e differenti: dalla discriminazione etnica allo sfruttamento economico, dall’egemonia politica alle pressioni internazionali.
Kivu, una regione frammentata e instabile
Nella sfortunata regione del Kivu si contano centinaia di gruppi armati, alcuni dei quali poco più che bande, che sfruttano il vuoto politico creatosi a loro favore, principalmente nel tentativo di accaparrarsi l’approvvigionamento di terre rare di cui la regione è ricchissima e trattando la popolazione locale come dei sudditi a cui richiedere tasse e su cui fare violenza. Ma gli interessi economici non bastano a comprendere l’agire delle parti coinvolte, c’è una fondamentale componente culturale ed etnica da non sottovalutare: dopo la liberazione del Rwanda (1994) da parte dell’attuale presidente Paul Kagame, numerosi gruppi radicali Hutu fautori del genocidio anti-Tutsi si sono rifugiati in RDC stanziandosi nell’est e riorganizzandosi come FLDR (Forze Democratiche per la Liberazione del Rwanda), sostenuti dal governo in opposizione all’avanzata rwandese. Infatti, per gli anni successivi al genocidio, Kigali avrebbe costantemente minacciato il Congo orientale col pretesto di porre fine all’oppressione dell’etnia Tutsi e perseguendo l’obiettivo sotterraneo di ampliare il proprio controllo della regione. In questo quadro è inserita la nascita di gruppi ribelli come l’M23, il quale fa parte dell’AFC (Alleanza del Fiume Congo), un’organizzazione capitanata da Corneille Nangaa con aspirazioni ben più estese della sola regione del Kivu: Nangaa ha dichiarato di voler portare l’M23 a marciare su Kinshasa per destituire il presidente Felix Tshisekedi e prendere il controllo dello stato. Dunque, dietro a questa sorta di proxy war si nascondono interessi economici e politici coperti dall’alibi moralmente inattaccabile della lotta contro le discriminazioni. Le RDF (Forze di Difesa Rwandesi) hanno compiuto incursioni nel nord della regione schierando fino a 4000 soldati in prima linea nei combattimenti e formando i soldati del movimento. Il presidente Kagame, i cui interessi risultano evidenti, nonostante le numerose prove del supporto rwandese, alla domanda se il Rwanda fosse coinvolto nelle attività dell’M23 ha risposto con un testardo “non lo so”.
Le origini di M23
Il 27 febbraio 2025, il gruppo militare ribelle autodefinitosi M23 ha attaccato e conquistato Goma, capoluogo della regione del Nord Kivu, affermandosi come il gruppo più consolidato e stabile nella regione. Il nome completo sarebbe Movimento del 23 Marzo in riferimento agli accordi stipulati il 23 marzo 2009 tra l’esecutivo congolese e il Congresso nazionale per la difesa del popolo (Cndp), gruppo armato che aveva tentato di conquistare il Kivu, fallendo. Tali accordi implicavano l’integrazione delle milizie nell’esercito, ma alcune branche più radicali si opposero formando, appunto, il Movimento del 23 Marzo. Nel 2012 il gruppo iniziò a combattere contro l’esercito congolese e la missione ONU denominata MONUSCO riuscendo a conquistare per la prima volta Goma, ma fu costretto a ritirarsi una decina di giorni dopo a causa delle pressioni internazionali sul Rwanda e l’inimicizia della popolazione. Per i nove anni successivi il movimento avrebbe agito con più prudenza e meno appariscenza fino al novembre del 2021, quando lanciò una nuova offensiva. Da allora i ribelli hanno continuato ad avanzare nel Nord Kivu arricchendosi con le ricche risorse di centri minerari come Rubaya e Nyabybwe da cui sono estratti cassiterite e coltan, minerale fondamentale per la produzione di strumenti tecnologici. Secondo l’ONU, il movimento avrebbe guadagnato nel 2024 800mila dollari al mese grazie alle estrazioni e alle costanti esportazioni illegali verso il Rwanda. L’M23 sembra agire come un vero e proprio apparato statale apportando cambiamenti da occupazione a lungo termine, in altre parole non sembrano intenzionati a lasciare presto la regione.
Il pugno malfermo della RDC
L’attuale presidente della Repubblica Democratica, Félix Tshisekedi, è impegnato fin dal suo primo mandato nel tentativo di placare le attività ribelli e integrare i gruppi militari nell’esercito regolare; in quest’ottica rientrano la connivenza con la FLDR e l’alleanza sugellata a Pinga il 9 maggio 2022 tra il governo e vari leader autonomi di milizie definite “di autodifesa”, presenti nel Nord Kivu dagli anni ’90. Tali forze, se per anni erano state considerate ribelli per il loro opporsi al governo centrale, con la crescente minaccia dell’M23 iniziarono a essere percepite come difensori della patria e proprio questa allineamento alle milizie statali le portò a essere ribattezzate Wazalendo (“patrioti” in swahili). Nonostante la forte dimensione propagandistica legata a questa denominazione, nei fatti l’esercito congolese rimane male addestrato visto il massiccio arruolamento della popolazione, la quale è spesso non adeguatamente formata alla lotta armata. In aggiunta a ciò, le cellule ribelli mantengono la loro identità all’interno dell’esercito, l’integrazione non avviene mai del tutto e si costituiscono gerarchie parallele atte ad assicurarsi un ruolo di privilegio. Queste dinamiche rendono estremamente deboli le forze congolesi che, nonostante il supporto della SAMIDCR (le 1300 truppe dispiegate dalla Comunità di Sviluppo dell’Africa Meridionale), non sembrano capaci di opporsi a M23.
Qui un riassunto di come siamo arrivati a questo punto, con una breve cronistoria del conflitto, dalle origini ad oggi
Mattia Paratore