Dietro le vetrine scintillanti e le passerelle del lusso, torna a mostrarsi l’altra faccia del “Made in Italy”: laboratori clandestini, turni massacranti, salari da fame. Dopo l’inchiesta della Procura di Milano che ha messo sotto la lente colossi come Armani, Loro Piana, Valentino e Tod’s, la politica rischia di fare un passo indietro.
Con il Disegno di Legge sulle Piccole e Medie Imprese (Ddl Pmi), già approvato al Senato, il governo propone una certificazione volontaria di filiera che, dietro l’apparenza della trasparenza, introdurrebbe un vero e proprio scudo penale per le aziende capofila, anche in presenza di caporalato o sfruttamento nei subfornitori.

Caporalato nella moda: l’appello contro lo scudo penale per l’azienda capofila

«Questa proposta non tutela il Made in Italy, ma lo tradisce», denunciano le organizzazioni firmatarie dell’appello lanciato oggi al Parlamento, tra cui figurano la Campagna Abiti Puliti, ma anche altre 22 realtà, come sindacati, associazioni per i diritti umani e organizzazioni della società civile.
L’invito ai deputati è netto: «Non votate un testo che legalizza l’impunità dello sfruttamento».
Le indagini milanesi hanno dimostrato come le grandi case di moda non possano più dichiararsi ignare degli abusi nella catena produttiva. Eppure, invece di introdurre una responsabilità diretta per il controllo dei fornitori, la maggioranza di governo preferisce puntare su una certificazione su base volontaria.
Un bollino “etico” che rischia di diventare, ancora una volta, un paravento legale per chi vuole lavarsi le mani.

«Qualsiasi misura volontaria, che non sposti l’onere di controllo e prevenzione in capo ai committenti, è destinata a restare inefficace», spiega Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign, rete internazionale con oltre 220 organizzazioni attive per i diritti dei lavoratori del tessile. «Finché non verrà introdotto un obbligo di trasparenza e responsabilità per le imprese capofila, le stesse logiche di sfruttamento continueranno a prosperare», aggiunge.
«Non è possibile che per promuovere questa iniziativa di certificazione volontaria di filiera si vadano a sacrificare delle persone che in queste filiere ci lavorano», le fa eco Priscilla Robledo, responsabile lobby e advocacy della campagna.

Le organizzazioni promotrici chiedono al Parlamento di eliminare lo scudo penale dal Ddl Pmi e di invertire la rotta: il vero “Made in Italy” non nasce dal lavoro nero, ma dal lavoro dignitoso e regolare. Un richiamo netto a una politica che troppo spesso si schiera con chi produce profitti, non con chi produce valore.
Il problema del caporalato e dello sfruttamento del lavoro nel settore dell’alta moda, del resto, oggi è emerso a Milano grazie alle indagini della Procura, ma è possibile ipotizzare come sia esteso a tutti i distretti tessili d’Italia. A Prato, ad esempio, le lotte dei Sudd Cobas, co-firmatari dell’appello, testimoniano gravi situazioni di sfruttamento.

ASCOLTA L’INTERVISTA A PRISCILLA ROBLEDO: