Nel sempre più turbolento scenario del Mar dei Caraibi, cresce l’allarme per il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nelle acque e, forse presto, anche sul territorio del Venezuela. Dopo settimane di operazioni militari contro imbarcazioni accusate (senza prove) di trasportare droga, il presidente Donald Trump ha ammesso di aver autorizzato la CIA a condurre azioni clandestine nel Paese sudamericano. Un’ammissione che riporta alla memoria i momenti più oscuri della Guerra Fredda e fa temere un nuovo interventismo statunitense nella regione.
La “pressione” di Trump sul Venezuela, aiutato dalla Cia
Secondo quanto rivelato dal New York Times, e poi confermato dallo stesso Trump, l’autorizzazione rientrerebbe in una strategia più ampia di “pressione” contro il presidente Nicolás Maduro, accusato senza prove concrete di narcotraffico e di essere a capo del cosiddetto Cártel de los Soles. Il tycoon ha dichiarato di aver agito «per due motivi»: contenere i flussi migratori dal Venezuela e contrastare il presunto traffico di droga. Ma diversi osservatori internazionali ritengono che dietro la retorica della “guerra alla droga” si nasconda un obiettivo politico ben più ampio: la destabilizzazione del governo venezuelano e il controllo delle sue immense risorse petrolifere.
Dall’inizio di settembre, almeno 27 persone sono state uccise in sei operazioni statunitensi contro imbarcazioni nel Mar dei Caraibi, spesso in acque internazionali. Le autorità americane sostengono di aver colpito navi dei cartelli, ma non hanno fornito prove né sui carichi né sulle identità delle vittime. L’uso della forza, in assenza di dichiarazioni di guerra o autorizzazioni del Congresso, ha sollevato dubbi di legittimità anche negli stessi Stati Uniti, dove alcuni parlamentari chiedono chiarezza sull’operato dell’amministrazione.
In un’intervista a Dignità Tv, l’analista Marco Consolo ricostruisce le mosse degli Stati Uniti di Trump, ma anche le reazioni di Caracas.
Oltre alla mobilitazione militare di circa 4mila uomini, il Paese latinoamericano ha agito anche sul fronte diplomatico, cercando di assicurarsi la solidarietà e il sostegno di Cina e Russia.
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A Caracas, il governo ha reagito con fermezza. In un comunicato ufficiale, il ministero degli Esteri ha denunciato «una chiara operazione di cambio di regime» orchestrata da Washington, e ha annunciato l’intenzione di portare la questione davanti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Parallelamente, l’esecutivo ha mobilitato l’esercito e le milizie popolari, attivando le strutture di difesa territoriale per prevenire qualsiasi escalation.
«L’America Latina non ha bisogno di nuovi golpe mascherati da missioni umanitarie», ha dichiarato un portavoce del governo venezuelano, evocando i precedenti interventi della CIA nel continente – dal Guatemala al Cile, dal Brasile all’Argentina – che hanno segnato decenni di instabilità politica e sofferenza sociale.
La crisi diplomatica si estende anche oltre il piano militare. Caracas ha annunciato la chiusura di alcune ambasciate europee considerate ostili, rafforzando invece le relazioni con Paesi africani e del Sud globale, in un tentativo di costruire un fronte alternativo alle pressioni occidentali.
In un clima di crescente tensione, il rischio di un incidente armato resta concreto. Ma il Venezuela, pur sotto assedio economico e politico da anni, sembra deciso a difendere la propria sovranità. E per molti analisti latinoamericani, l’intervento della CIA non fa che confermare un principio antico: che ogni volta che un Paese dell’America Latina tenta di tracciare una via autonoma, la mano di Washington non tarda a farsi sentire.