La stagione autunnale d’opera al Comunale Nuveau si è aperta la settimana scorsa con un’interessante doppio programma attorno al mito di Edipo. Sul podio la direttrice Oksana Liniv ha diretto i tre preludi sinfonci per orchestra di Ildebrando Pizzetti completati scenicamente con straordinarie foto dal set dell’Edipo di Pasolini e nella seconda parte l’Oedipus Rex di Stravinskij con la efficace regia di Lavia che ha anche preso parte alla rappresentazione come narratore accanto a Gianluca Terranova (Edipo), Atala Schock (Giocasta), Anton Keremidtchiev (in doppia veste di Creonte e messaggero), Sorin Coliban (Tiresia) e Sven Hjorleifsson (pastore). Una proposta coraggiosa e ben riuscita che ha fatto uscire la programmazione dai titoli più consueti creando curiosità e interesse nell’uditorio.
Sorprendenti le proiezioni realizzate in collaborazione con la Fondazione Cineteca Bologna che accompagnano l’esecuzione dei tre preludi sinfonci di Ildebrando Pizzetti per l’Edipo re di Sofocle, che ripercorrono l’intero film di Pasolini del 1967 “Edipo re” girato in Marocco in un paesaggio desertico dove erano stati girati kolosal hollywoodiani in stile western. Sono immagini talmente dense e ricche, talmente entusiasmanti da rubare la scena alla musica che, rischia di diventare sottofondo per quelle potenti immagini dei volti degli attori e attrici scelte da Pasolini. Impossibile staccare l’attenzione dai costumi, dalle scenografie firmate da Luigi Scaccianoce, ma poi, nei fatti realizzate sul posto dall’allora assistente Dante Ferretti con maestranze di Cinecittà.
Riuscire a concentrarsi sulla musica è stato a tratti difficile per l’invadenza di quelle immagini incredibili, ma i tre preludi del compositore e critico parmense sono risultati molto interessanti musicalmente. Nati su sollecitazione dell’attore Gustavo Salvini a cui Pizzetti aveva dedicato nel 1901 un Overture per L’Edipo a Colono, i tre preludi sono stati rappresentati nel 1904 come intermezzi all’Edipo re di Salvini al teatro Olimpia di Milano, diretti da Campanini, poi nel 1919 a Roma verranno diretti dall’autore stesso come preludi. Il primo narra musicalmente l’antefatto rispetto alla tragedia sofoclea andando al mito sottostante ed ha un tono solenne e dolente. Nell’intento doveva evocare il senso del tragico che incombe sulla città di Tebe tenuta in scacco dalla Sfinge. La musica riporta il sentimento di attesa ansiosa della popolazione. Il secondo preludio “con impeto ma non troppo mosso” ha un ritmo concitato e porta in scena l’ansia di Edipo che volendo sfuggire al suo destino gli va incontro inconsapevolmente. Splendido è l’assolo dell’oboe che crea un’atmosfera struggente in un momento di apparente tranquillità che provoca un accumulo di tensione che va quindi ad esplodere in un fortissimo fino a un finale davvero emozionante che dovrebbe coincidere con la pronuncia della profezia dell’oracolo a Edipo tornato a Tebe.
Il terzo preludio che riporta l’indicazione agogica “con molta espressione di dolore”, ha un tono per l’appunto dolente che nella rappresentazione bolognese viene fatto coincidere con le immagini del film in cui si vedono accesi roghi per bruciare i morti causati della peste che dilaga. Torna il tema musicale iniziale, ma accompagnato da un pizzicato d’archi e un assolo di violini con un finale di pace a indicare l’abbandono di Tebe da parte di Edipo dopo essersi accecato per aver compreso di essersi macchiato di parricidio e di incesto. Indimenticabile il volto di Franco Citti, nelle foto proiettate del film di Pasolini, grondante di sangue dopo l’accecamento, momento di angoscia stemperato poi dalle gioiose immagini dell’attore in giro per Bologna con Pasolini, sotto il portico dei Servi, che chiudono i preludi tra gli applausi.
La seconda parte dello spettacolo è stata dedicata all’Oedipus rex di Stravinskij indicato come “opera oratorio” in due atti. Il libretto è firmato dallo stesso compositore insieme a Jean Cocteau che affidò la traduzione del testo di Sofocle in latino a Jean Daniélou. Il compositore ha costruito la partitura dunque sui suoni del testo latino e, per facilitare la comprensione del pubblico francese del 1927, anno in cui debuttò a Parigi al teatro Sarah Bernhardt, Cocteau scelse di mettere in scena un narratore in frack, con stile da conferenziere, per anticipare la vicenda di scena in scena. Il testo francese in questa versione presentata al Comunale è stato tradotto in italiano e narrato da Lavia che firma, come dicevo in principio, anche la regia dello spettacolo.
E’ Lavia a dichiarare apertamente nell’intervista rilasciata ad Andrea Maioli ed apposta sul libretto di scena, di aver voluto discostarsi dall’idea registica di Stravinskij che “pretendeva una fissità statuaria dei cantanti: non voleva che si muovessero sul palco, perché- giustamente- non amava i movimenti canonici da cantante lirico” ed avverte “la mia regia si vedrà sulla scena”.
E la sua regia si è vista nel senso che ha operato delle scelte precise in base alla struttura atipica del Comunale Nuveau che non ha altezza sopra il palcoscenico e quindi non permette scenografie che si sviluppano in verticale o che debbano essere cambiate sollevandole o calandole dall’alto. Partendo dalle condizioni date ha deciso di accentuare ancora di più il senso di schiacciamento dei personaggi da un soffitto basso creando un “luogo basso” come a dare la sensazione del fato che incombe sulla città. La peste, la malattia, il male del mondo che opprime Tebe che il regista paragona al male dei nostri giorni, la guerra che è tornata prepotentemente nella nostra realtà, “a due passi da casa nostra dove ci sono quei bambini senza cibo, vicino a noi, in quel “mondo” abbandonato all’orrore. Dove i bambini piangono, giocano e muoiono.”
Lavia è riuscito a far passare anche visivamente l’idea del male che incombe e a far riflettere, attraverso il mito, sul fatto che noi tutti siamo nella stessa condizione di Edipo ovvero alla ricerca spasmodica dell’origine del male fino a scoprire che siamo noi stessi alla radice di quel male che ci riguarda.
Il regista ha tolto parte di quella fissità statuaria che Stravinskij cercava nei cantanti per togliere loro una gestualità di maniera, fissità accentuata dall’uso di costumi tali da permettere solo movimenti di testa e braccia, per consentire invece movimenti più naturali entro costumi semplici, austeri, eleganti. Lavia non ha lavorato certo su una dinamica di movimenti ampi, bensì su piccoli movimenti, che segnano i momenti di snodo della vicenda tenendo desta l’attenzione e aiutando la narrazione.
La scena inizialmente è presentata senza personaggi e senza coro per dare il colpo d’occhio sulla interessante scenografia: il palco è riempito da alti pali neri che sono proiettori che illuminano la scenografia dall’alto e creano l’effetto di una selva o di una prigione, comunque di qualcosa che impedisce una libertà di movimento alla cittadinanza. Nella zona sinistra del palco fino alla sua metà si presentano poi sede vuote, all’estrema sinistra una grande testa di statua come fosse crollata, sulla destra verso il fondo una specie di tempietto, sul fondo in diagonale una sorta di muro o forse un pezzo di casa crollato che emerge e di cui si vedono dei pezzi di finestra e dietro un fondale nero.
Tutto è nero e grigio, la luce dall’alto isola coro e personaggi dal resto dello spazio proiettandoli in una sorta di spazio tempo altro.
Quando il coro entra si ha la sensazione di un popolo dolente che cerca salvezza, i coristi prenderanno posto sulle sedie cantando con le partiture in mano a dare l’idea di oratorio, o meglio di opera anti- rappresentativa, isolandoli in qualche modo così anche narrativamente dai cantanti. Stravinskij e Cocteau volevano un teatro proprio anti- rappresentativo, diverso dalle proposte dei loro contemporanei, anche diverso dallo straniamento brechtiano e dai formalisti russi. I personaggi in quest’opera non dialogano tra loro ma espongono la vicenda con le loro parole con distacco. Se pur senza quell’immobilità spinta pensata dagli autori, Lavia mantiene una certa compostezza, lavora con naturalezza di movimenti su piccoli spostamenti e coerenti con gli accadimenti mantenendo il senso di racconto del racconto del mito, immaginato dagli ideatori della partitura e del testo. Stravinskij, suggerisce il critico e docente di musicologia Enrico Girardi, voleva bloccare il flusso del tempo agendo sulle strutture formali lavorando sul linguaggio, da cui la scelta del latino per creare una sorta di separazione tra pubblico e mito che gli permetteva di agire sul testo considerandolo pura materia fonetica; evitando la forma dialogica e facendo percepire la catastrofe come esito inevitabile a partire da sovrapposizione di circostanze; nonché attraverso l’uso di cesure musicali che vanno a creare pezzi chiusi anche con ritornelli di singole sezioni. Il compositore ha agito sulle strutture formali e sulla stilizzazione sia vocale che strumentale creando momenti di declamazione ritmica allusiva a uno stile settecentesco, momenti di “urlato” come quando Giocasta insulta Tiresia. Utilizza gli strumenti separatamente per famiglie con molti momenti solistici, cercando impasti timbrici che valorizzano parole chiave del testo e a contrasto con le voci, ad esempio l’uso dell’ottavino sulle voci più scure e gravi.
Lavia appare in scena malfermo sulle gambe, teneramente invecchiato, ma straordinariamente bravo come è stato in passato quando la sua rossa chioma dominava i palcoscenici di prosa. L’effetto di andatura insicura è comunque voluto ed accentuato e non dipendente solo dall’anzianità dell’attore e regista: il palcoscenico è stato ricoperto di foglie secche e nere come la peste che devasta la città di Tebe, un terreno malsicuro che può mettere in difficoltà tutti i personaggi della vicenda. Sono poste in particolare risalto alcune parole del testo che ci rimandano drammaticamente al presente evocando cataste di corpi insepolti e fanno sentire come il mito in ogni epoca abbia la capacità di continuare a risuonare nelle orecchie dei contemporanei aiutando a mettere in luce i problemi coevi al tempo della sua rilettura.
La direzione di Oksana Lyniv è stata molto vibrante, intensa, piacevolissimo è stato scoprire questa partitura e la sua particolare strumentazione, l’uso inatteso che Stravinskij fa qui dei fiati e il modo in cui crea dei contraltari alle linee vocali attraverso gli strumenti scelti o i ritmi. E’ sicuramente uno Stravinskij diverso da quello delle partiture più note, uno Stravinskij che aveva virato verso il neoclassicismo mantenendo una vena di sperimentalismo, una ricerca di forme nuove per l’opera, in senso anti- rappresentativo ma non con intento ironico o parodistico, bensì restando entro un registro tragico. Protagonista è sicuramente il coro di sole voci maschili che commenta le parole dei personaggi e integra la narrazione di ciò che avviene con tono luttuoso. L’orchestra va a oggettivizzare, a rendere sonoramente percepibile la drammaturgia ma senza alcuno sviluppo tematico e nemmeno esprimendo la psicologia dei personaggi. Dalle parole del testo si ispirano ritmi e si combinano timbri creando suggestioni. Una partitura di grandissimo interesse che non veniva messa in scena da 57 anni e che forse era il momento di riproporla e quindi di ascoltarla ponendoci gli interrogativi che Edipo da sempre ci pone costringendoci a metterci ancora una volta alla ricerca dell’origine del male nel mondo e a scoprirci coinvolti nel suo esistere e responsabili dell’innescare un percorso per la sua rimozione e superamento.