Nessuno rimpiange i tempi in cui l’educatore scolastico perdeva le ore di lavoro ogni qualvolta lo studente a lui assegnato risultava assente. Tuttavia, la ridefinizione della figura professionale dell’educatore scolastico in educatore di plesso, attualmente in sperimentazione in diversi istituti, solleva più di qualche interrogativo: non solo sulla reale efficacia del modello, ma anche sulle intenzioni di chi, a livello normativo, ne sta promuovendo l’adozione. Il rischio, tutt’altro che remoto, è che l’educatore di plesso finisca per diventare un semplice “tappabuchi”, chiamato a coprire le consuete carenze organizzative, anziché una figura strutturale e riconosciuta della comunità scolastica, con un ruolo e una progettualità propri. Le esperienze già attive in alcune scuole della nostra città sembrano purtroppo confermare questa tendenza.

Negli ultimi anni, la figura dell’educatore di plesso è stata promossa, da enti locali e privato sociale, come una risorsa innovativa e trasversale, capace di rispondere ai nuovi bisogni educativi delle scuole. Nelle intenzioni, si tratterebbe di un professionista in grado di ideare e condurre laboratori, collaborare in rete con insegnanti e colleghi e contribuire al benessere complessivo del contesto scolastico. Una visione ricca di potenzialità e suggestioni pedagogiche che, però, nella pratica quotidiana, rischia di tradursi in una “strategia al risparmio”. In assenza di una normativa nazionale chiara e uniforme che ne definisca ruolo, competenze e mansioni, l’educatore di plesso viene oggi sempre più spesso impiegato per coprire assenze o supplire alle carenze di organico del personale di sostegno.

Per capirne di più sull’argomento, abbiamo messo a confronto Valentina e Arianna, due colleghe che hanno vissuto in prima persona il passaggio da educatrici in affiancamento a educatrici di plesso, con il professor Dario Ianes, pedagogista, esperto di inclusione scolastica.