Il 4 febbraio scorso sono stati rilevati per la prima volta dei casi della variante inglese del virus Sars-Cov-2 in Emilia Romagna. La variante è stata identificata su dieci persone, tutte provenienti dal Regno Unito. I casi, emersi al Policlinico Sant’Orsola, erano tutti asintomatici.
L’individuazione è stata resa possibile dall’analisi svolta dal laboratorio di Pievesestina, diretto dal professor Vittorio Sambri, in collaborazione con la sede di Parma dell’Istituto Zooprofilattico sperimentale dell’Emilia-Romagna e Lombardia. In seguito ai risultati e all’aumento del pericolo di contagio dovuto alla diffusione della variante, la Regione ha deciso di estendere la ricerca anche a chi rientra da nazioni a rischio come Portogallo, Brasile e Sudafrica, oltre a pazienti che presenteranno particolari criteri clinici.

Varianti, quanto dobbiamo preoccuparci?

L’allarme sulle varianti riempie le pagine dei quotidiani delle ultime settimane ma, preoccupazione a parte, poche sono le occasioni per capire davvero cosa ci troviamo a fronteggiare.
Che i virus mutino non è una novità e il Covid non fa eccezione. Si tratta di una caratteristica che, nel linguaggio degli esperti, viene definita “escape”, cioè il tentativo del virus di sfuggire alle contromisure.
A spiegarne il funzionamento è, ai nostri microfoni, l’epidemiologo dell’Università di Bologna Davide Gori. «Tra le tante varianti di un virus, quelle che vengono “scelte” sono quelle che gli permettono di sopravvivere, attraverso una sorta di selezione naturale darwiniana che favorisce la capacità di riprodursi e replicarsi saltando da un individuo all’altro», osserva l’epidemiologo.

In questo modo, le varianti che sostituiscono il virus iniziale tendono ad essere più velocemente trasmissibili da individuo a individuo. La selezione naturale non avviene, però, in base alla capacità di uccidere le persone: questo sarebbe, invece, un fattore di svantaggio per il virus, che non vorrebbe uccidere il suo ospite, piuttosto riprodursi grazie a quest’ultimo.
Le varianti, dunque, sembrano rispondere a due caratteristiche: «una maggiore capacità replicativa e una maggiore capacità di infettare – sottolinea Gori – Sono cose che, epidemiologicamente parlando, mettono in difficoltà, in quanto fanno aumentare il numero di persone che richiedono ospedalizzazione e terapie».

Ancora una volta, dunque, il pericolo sarebbe rappresentato dalla scarsa tenuta dei sistemi sanitari nei confronti del contenimento del virus, ma un monitoraggio dovrebbe essere effettuato anche rispetto al comportamento delle varianti nei confronti del vaccino. Tuttavia, l’epidemiologo ha rassicurato che, fino ad ora, le varianti identificate non rappresentano un problema per l’efficacia del vaccino.
I problemi più gravi potrebbero riguardare, piuttosto, la gestione e la distribuzione del vaccino stesso. «Le coperture vaccinali devono cercare di coprire tutta la popolazione globale – sottolinea Gori – Se vi sono Paesi come il Brasile o il sud est asiatico, Paesi molto popolosi dove il virus corre incontrollato perché non si riesce né con il vaccino né con le opportune misure di prevenzione a rallentarne la corsa, sarà più facile che si selezionino nuove varianti».

La campagna vaccinale, per evitare che la situazione degeneri, dovrà seguire una logica in grado di considerare tutto il mondo, senza divisioni e disparità fra nazioni, cosa che, purtroppo, non si sta verificando. «L’accaparrarsi dei Paesi più ricchi della maggior parte delle dosi potrebbe non essere una politica logica – conclude Gori – in quanto non considera una visione globale, da questo punto di vista. Ciò che i Paesi più ricchi hanno messo alla porta potrebbe invece rientrare dalla finestra».

Vittoria Torsello

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