Pugno di ferro contro i sanitari che non si vogliono vaccinare. È questo il tenore dei resoconti delle misure varate ieri dal decreto legge del governo che, oltre a stabilire nuove restrizioni per fronteggiare la pandemia, interviene anche sulla questione dei vaccini per il personale sanitario.
Un’attenzione per il diritto alla salute che non viene riservata alle donne, sempre più alle prese con l’obiezione di coscienza all’aborto, che ostacola fortemente l’accesso alla prestazione sanitaria.

Aborto, l’obiezione minaccia la salute tanto quanto i no vax

Il decreto legge licenziato dal Consiglio del ministri introduce l’obbligo vaccinale per il personale sanitario, ritenuto un requisito “essenziale all’esercizio della propria professione” fino al 31 dicembre 2021.
In particolare, gli Ordini professionali dovranno inviare l’elenco degli iscritti affinché le Regioni possano verificare se effettivamente tutti e tutte siano vaccinati e vaccinate. Per contro, chi rifiuta può incorrere nella sospensione dall’ordine e il demansionamento. Qualora quest’ultimo non fosse possibile, durante la sospensione “non è dovuta retribuzione”.
La ratio alla base di questa decisione sta tutta nella sicurezza delle strutture ospedaliere e nella tutela della salute dei e delle pazienti.

Un riguardo che nessun governo ha riservato alle donne che vogliono accedere all’interruzione volontaria di gravidanza. A mettere in relazione i due temi sono diverse persone, spesso esponenti di movimenti femministi, ma anche la giornalista Ingrid Colanicchia in un articolo pubblicato da MicroMega e intitolato “Obiezione di coscienza all’aborto e obbligo vaccinale. Lo Stato e la pratica del due pesi due misure“. L’articolo è uscito qualche giorno fa, anticipando il decreto licenziato dal Cdm.
Nell’articolo, la giornalista ricorda il richiamo all’Italia da parte del Consiglio d’Europa, che denuncia la disparità di accesso all’interruzione volontaria di gravidanza a livello locale e regionale e mette in relazione il tema con la solerzia e la determinazione utilizzata invece per la questione della copertura vaccinale.

«Il tema non è solo che nella legge 194 è contemplata l’obiezione di coscienza – osserva Colanicchia ai nostri microfoni – Il problema è che spesso i diritti delle donne sono considerati diritti di serie B». Un problema politico e culturale, che la presenza della chiesa cattolica certamente non aiuta a risolvere.
Eppure sono passati 42 anni dall’approvazione della legge 194 e, se l’obiezione di coscienza poteva avere un senso all’epoca perché molti ginecologi si erano formati prima che l’aborto fosse presente nell’ordinamento italiano, da più di quattro decenni chi sceglie quella professione sa che una delle mansioni dovrebbe prevedere l’interruzione volontaria di gravidanza. Se ci fosse la volontà politica, quindi, si potrebbe decidere che nelle strutture pubbliche non è consentito porre obiezioni di coscienza.

ASCOLTA L’INTERVISTA A INGRID COLANICCHIA: