Si è chiuso il sipario sull’ultima replica della Madama Butterfly al Comunale Nouveau nel padiglione della Fiera allestito come teatro per il periodo di ampliamento degli spazi della sala del Bibbiena. Il pubblico cerca di ambientarsi chiedendo informazioni alle numerosissime maschere, c’è emozione e curiosità per abbonati e non. Anche il Sovrintendente Macciardi nel presentare l’opera mostra da un lato soddisfazione per quanto sono riusciti a fare le maestranze cercando di rendere confortevole il padiglione dove, fino a pochi mesi fa, si facevano le vaccinazioni Covid, ma confessa le difficoltà di pensare allestimenti per un luogo in cui non c’è altezza dei soffitti per calare e far sparire scenografie e raccomanda agli spettatori e spettatrici di evitare i giorni in cui si tengono partite di basket in altri spazi fieristici per il rumore e il caos, o per lo meno invita a recarsi in teatro molto in anticipo per trovare parcheggio.

Entrando nel padiglione Exhibition Hall di Piazza della Costituzione 4/a si ha la sensazione di essere accolti a teatro, tanti i dipendenti in uniforme, i cartelloni con la consueta grafica del Comunale, note le facce in biglietteria, in guardaroba. La fredezza e la scomodità di un padiglione fieristico si ha subito dopo quando si scopre che la presentazione dell’opera avviene nel corridoio d’ingresso, accanto al bar dove si intrattengono vocianti spettatori gustandosi bevande o spuntini. La voce del Sovrintendente Macciardi sparisce completamente anche stando vicini all’unica cassa acustica messa a disposizione, davvero poco potente per arrivare anche a pochi metri di distanza dal parlante. Si coglie poi la preoccupazione per come sarà possibile adattare, ripensare scenografie e regie pensate per teatri all’italiana e per l’acustica di un teatro all’italiana, in questo spazio in cui non c’è torre scenica e occorre chiudere il sipario per fare cambi scenici o farli a vista o evitarli totalmente mantenendo poi la frontalità ininterrottamente perchè mi è parso che qualche problema di acustica ci sia, per lo meno di amalgama dei suoni tra orchestra e voci quando l’orchestra suona a pieno volume.

Raccogliendo pareri tra spettatori e spettatrici rispetto all’acustica sembra che le voci si sentano bene, per lo meno in fondo in posizione più alta, personalmente ho trovato che a metà platea si senta in modo eccellente l’orchestra e si goda una bell’esperienza immersiva, ma per l’intero primo atto, nei momenti in cui l’orchestra esprime tutta la sua potenza di suono, mi è parso che le voci dei e delle cantanti arrivasse da lontanissimo, come se fossero ovattate. Nel secondo e terzo atto invece, nei momenti in cui l’orchestra proponeva dei pianissimi, le voci emergevano con soddisfazione riuscendo ad emozionare. E’ possibile che l’effetto fosse dovuto anche a una momentanea difficoltà di alcuni interpreti nel rapporto di suono con l’orchestra, oppure lo spazio, nei pieni orchestrali fa risultare il suono degli strumenti in primo piano rispetto alle voci che giungono da una posizione retrostante alla buca.

Come stiano le cose lo vedremo anche in futuro con altri/e interpreti, altre partiture e altre regie. Vero è che per quanta moquette si possa mettere in uno spazio non teatrale insieme a pannellature fonoassorbenti, l’acustica non sarà mai paragonabile a un luogo pensato per il teatro o per la musica e anche a detta del Dottor Macciardi uno dei problemi del nuovo spazio è che manca il riverbero, il suono decade immediatamente.

Visivamente la sala appare una distesa verde oliva. Sedie, sipario e pannelli laterali verde oliva recano impressi lo stemma del Comunale. Le bordature delle per altro comode sedie sono in legno chiaro, la moquette a terra è nera illuminata da eleganti luci di servizio poste sui gradini. Buona la visibilità del palco e quindi dei volti degli e delle interpreti. Il disagio è causato, come dicevo dal fatto che le voci risultano ovattate anche quando l’interprete usa tutta la potenza vocale di cui è capace se contemporaneamente l’orchestra ha un fortissimo (vedi anche il momento di tensione dell’irrompere in scena dello zio Bonzo di Cio-Cio-San, nel primo atto). Grande emozione invece si ha quando si riesce a godere delle mezzevoci, del discorso musicale, ad esempio nel dialogo intimo tra Suzuki e Cio-Cio-San in cui la magnifica orchestra crea un’atmosfera altrettanto delicata e nostalgica.

In parte per la situazione acustica sopra descritta che pone in risalto i timbri orchestrali, e sicuramente anche per merito dell’attenta direzione del maestro Oren, l’orchestra risultata protagonista dell’esecuzione della partitura pucciniana capace di travolgere d’emozioni gli e le astanti con la piacevolezza delle melodie orientaleggianti e i suoni percussivi a imitazione della natura che risultano carichi di nostalgia e presagi funesti, come anche attraverso le ripetizioni dell’inno della marina americana (oggi inno nazionale statunitense) attraverso cui si palesa l’arroganza del rapace Yankee che, in ragione della potenza della sua madrepatria, giustifica l’atteggiamento da colonizzatore esercitato su altri popoli e culture. Evidenziato dall’esecuzione emerge il tono colloquiale usato da Puccini in Madama Butterfly, l’affacciarsi di un linguaggio musicale nuovo in quel 1904, anno della prima esecuzione al Teatro alla Scala, che rompe le forme chiuse e fa sì che il bel canto si ritrovi in lacerti nello scorrere delle conversazioni tra personaggi che vivono la normalità del dolore della vita, anche se nel finale Butterfly riesce ad innalzare quella mediocrità del vivere alla statura di eroina sacrificando la propria vita per la felicità senza rimpianti del figlioletto.

Il 25 febbraio ho avuto modo di ascoltare il secondo cast previsto che proponeva Zarina Abaeva nel ruolo di Cio- Cio-San, Aloisa Aisemberg in quelli di Suzuki, Antonio Poli come F.B. Pinkerton e Angelo Veccia nelle vesti di Sharpless. Abaeva vocalmente è risultata efficace e preparata, ha commosso nelle più celebri melodie del secondo e terzo atto per la capacità di giocare sui pianissimi anche se è più incerta nei momenti di voce piena. Le poche prove in costume forse non l’hanno per nulla resa sicura nel gestire il kimono del primo atto e risulta sempre impacciata, attenta a scansarne la coda guardando spesso in basso come chi non è avvezzo ad avere uno strascico da governare, oltretutto è sempre in difficoltà nei movimenti, non riesce a sedersi e ad alzarsi poco dinamica e per nulla a suo agio con il proprio corpo. Si evince che Abaeva non ha a lungo lavorato sulla sua corporeità superando con la persenza scenica e attraverso un intenso lavoro sul movimento, le questioni puramente fisiche. Questo è aggravato dalla fissità, staticità della regia, se si può chiamare regia quella di Aliverta, e da un compagno di scena altrettanto debole come Antonio Poli che, impalato come un vero marinaio perennemente sull’attenti, è ben poco amante e seduttivo nell’intimità dell’alcova dopo il matrimonio, attento solo a rimanere frontale per non far perdere al suono l’unica dierzione forse possibile in quella condizione spaziale dettata dal luogo. Poli poi spesso ha ecceduto nel dare potenza alla voce perdendo intonazione e nei momenti di delicata morbidezza è inudibile coperto dall’orchestra e gli acuti non brillano. Vecchia invece risulta ottimo attorialmente nella sua interpretazione di Sharpless, efficace teatralmente Paolo Orecchia nel ruolo del Principe Yamadori che vorrebbe sposare Madama Butterfly ormai abbandonata da Pinkerton e pertanto teoricamente in condizione di poter contrarre nuove nozze per la legge giapponese. Personaggio ben interpretato scenicamente e vocalmente è quello di Suzuki da parte di Aloisa Aisemberg particolarmente efficace nel dialogo persuasivo con la padrona quando tenta di farle capire che se non torna Pinkerton sono ormai “male in arnese” e dolce e protettiva quando cerca di nasconderle le intenzioni della nuova signora Pinkerton.

Accennavo all’inesistente regia del giovane Giammaria Aliverta che, forse per nulla soddisfatto del risultato ottenuto, anche nelle note di regia riportate sul libretto sembra gettare tutta la colpa di quanto vediamo in scena sul fatto di essere stato costretto dalla produzione del Comunae ad usare un allestimento riciclato realizzato per la scuola dell’Opera di Bologna nel 2009 che definisce “casalingo” e disconosce pertanto che quella sia una “sua” produzione in quanto si è limitato solo ad “adattare il mio estro artistico a un qualcosa di già esistente, che doveva per di più adattarsi a questo nuovo teatri che verrà consegnato a prove già iniziate”.

Immagino la difficoltà di fare le prove in un posto differente da quelle in cui si andrà in scena debuttando poi in un non teatro, in uno spazio con mille problematiche ancora non risolte, tuttavia la sua rimane una non regia in cui si è limitato a dare delle posizioni agli interpreti forse chiedendo loro di muoversi il meno possibile guardando fissi in avanti perchè non si perdessero le voci e non ha curato minimamente la scena intima della vera passione di Butterfly e Pinkerton, nè ha aiutato la protagonista a gestire il movimento scenico e nemmeno si è ingegnato nel far apparire meno immobili tutti i quadri giocando con la scenografia, per quanto imposta, ma gradevole che poteva prestarsi a mille usi e movimenti non avendo ingombri ed essendo piena di camminamenti e punti che mai vengono usati.

La cosa più curata di tutta la regia è il movimemto scenico del bambino di madama Butterfly. Bravissimo il piccolo si è mosso da solo ricordandosi perfettamente tutto quello che doveva fare! Proprio al fine di una sequenza che teatralmente stava funzionando per l’intimità della situazione creata, in realtà si viene a determinare un’incongruenza registica enorme quando Butterfly canta “dormi amor mio sul mio cor” il bambino, invece di continuare a dormire, si alza da solo, sposta il cusicino da un’altra parte del palcoscenico (perchè palesemente deve sgomberare un’area dove gli altri interpreti dovranno cantare) e si rimette a dormire per nulla coccolato dalla madre che canta immobile altrove. Poi l’unica idea registica, per altro sbandierata nelle note di regia come grande trovata, è accentuare l’arroganza del gesto di Kate, seconda signora Pinkerton, venuta a portare via il bambino per portarlo in America. Se in altre regie, di Kate si sottolinea quel “lo terrò come un figlio” facendola entrare e uscire in punta di piedi quasi consapevole del dolore inflitto alla vera madre, qui Aliverta la dipinge come una Crudelia Demon egoista, che invece della pelliccia di dalmata vuole per sé il figlio della finta moglie giapponese conquistata anni prima dal marito cercando di dare un tocco di modernità, di attualità ad una messa in scena che non ha nessun elemento di innovazione, incapace di suscirare interesse, priva di garbo. Se poteva essere motivo di curiosità che Butterfly nel secondo atto apparisse in abiti occidentali, americani, dismettendo quelli della tardizione giapponese e sciogliendo i capelli circondandosi di bandierine americane per sentirsi pienamente moglie di un americano, con poca cura poi il regista gestisce il desiderio della protagonista di presentarsi con l’abito del matrimonio al suo amore che sta tornando e quindi risulta raffazzonato il cambio d’abito, che viene completato nell’intervallo, fuori scena a sanare lo spenzolare dal kimono dell’abito a fiorellini e l’essere rimasta con le scarpe col tacco. Vedendo regie così poco curate mi stupisco sempre di come vengano assegnati certi premi di cui i curricula dei libretti sono prodighi di menzioni e mi viene da pensare che non solo occorre ideare regie specifiche per i luoghi in cui si devono realizzare gli spettacoli (come il sovrintendente spera che avvenga per questo spazio così “particolare”), ma che debba essere ripensato tutto il sistema del mettere in scena un’opera lirica dedicando più tempo alle prove per rendere credibili i personaggi, i movimenti scenici, il rapporto tra i personaggi perchè è sulla scena, per l’esecuzione dal vivo, che si deve lavorare per catturare l’attenzione del pubblico, cercandone anche il ricambio, non immaginando che solo nelle regie pensate per l’on line si debba ricercare la verità scenica lasciando al teatro dal vivo la ieraticità e l’immobilismo di maniera.

E stato il maestro Oren a dare anima, emozioni, colori, dinamica se non altro musicale a una messa in scena assolutamente non incisiva, e i cantanti, dal loro punto di vista, hanno fatto il possibile per ovviare a tutte le problematiche della situazione riuscendo a creare momenti di sincera emozione. Il rodaggio degli spazi e delle modalità realizzative delle opere dovrà continuare e ci auguriamo che si sperimentino soluzioni nuove, piacevoli e godibili sia da un punto di vista acustico e musicale, che da un punto di vista di resa scenica e performance corporea attoriale.