Sono sempre più ricorrenti critiche e denunce da parte di studenti e studentesse nei confronti del sistema accademico. A partire dalle parole pronunciate dalle tre ragazze neo laureate alla cerimonia della consegna dei diplomi alla Normale di Pisa; a quelle di Alessandra De Fazio alla cerimonia d’apertura dell’anno accademico dell’Università di Ferrara, per passare al discorso di Emma Ruzzon, durante l’inaugurazione a Padova, e finire alle parole delle lettere d’addio di studenti e studentesse suicidi. Ebbene è come se ci fosse un filo conduttore che lega tra loro ognuna di queste parole e che tiene insieme anche il “Manifesto per un’altra Università”, redatto da Link, Adi (Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia), Flc-Cgil (Federazione Lavoratori della Conoscenza) e dalla Rete 29 Aprile.

Manifesto per un’altra Università, le richieste di studentesse, dottorandi, e lavoratrici

«Il Manifesto nasce dall’esigenza di provare a riscrivere un modello di Università diverso da quello in cui viviamo attualmente», ha detto oggi alla conferenza di presentazione Federica Fiorentino di Link Bologna. Il Manifesto parte dal presupposto che attualmente tanti soggetti rimangono inascoltati all’interno dell’Università; non ci si riferisce, infatti, solo alla componente prettamente studentesca, ma anche a quella dei dottorandi e delle dottorande, dei lavoratori e delle ricercatrici. Lo scopo, infatti, è quello di «provare a costruire un orizzonte politico che possa avere uno sguardo intersezionale e tenere dentro le esigenze di tutti i soggetti che attraversano le Università».

La componente collettiva di scrittura rappresenta una caratteristica fondamentale del Manifesto in un contesto, come quello delle Università, che si trasforma di anno in anno, spesso a discapito di queste categorie. Infatti, uno dei temi principali attorno cui ruota il Manifesto riguarda il ruolo stesso dell’Università. L’Università, infatti, «dovrebbe custodire il ruolo di creazione di un sapere libero; dovrebbe contribuire al processo di riscrittura della società attraverso la formazione di menti realmente emancipate», continua Federica. Eppure, nel tempo l’Università si è sempre più avvicinata al concetto di azienda, facendo proprie, dunque, le tipiche logiche di produzione ed efficienza.

Si tratta di un percorso ovviamente lungo, cominciato nel 1997 con le Leggi Bassanini che “puntarono ad aumentare l’autonomia degli atenei e introdussero il sistema del 3+2 insieme alla valutazione degli atenei definendo dei criteri nazionali”, si legge nel Manifesto. Ma la vera svolta verso l’aziendalizzazione avvenne con la Riforma Gelmini che diede la possibilità alle Università di trasformarsi in fondazioni di diritto privato, facendole diventare enti non commerciali e aprendo così la strada alla privatizzazione degli atenei.

A tal proposito si è espressa Serena, attuale coordinatrice della sezione Adi di Bologna. Se, infatti, il tema del finanziamento è centrale per quanto riguarda le innumerevoli problematiche che vivono dottorandi e ricercatrici, è vero anche che nel tempo è cambiata la modalità stessa di fare ricerca, proprio a causa del processo di aziendalizzazione che ha vissuto l’Università. «Una persona dovrebbe fare ricerca perché spinta dalla passione e dalla curiosità – ha detto la ricercatrice – eppure negli ultimi anni la ricerca si è completamente svuotata di una componente essenziale: l’intraprendenza e la creatività delle singole persone. I bandi, infatti, che sono l’unico modo per esercitare questa professione, sono molto vincolanti e non lasciano tanta libertà di proposta, ma al contrario, propongono dei posti a tema vincolato».

Questo, ovviamente, inficia la ricerca stessa come anche la mancanza della componente collettiva. Se, infatti, durante gli anni di triennale e magistrale, è più semplice creare gruppi più o meno coesi, diverso è il discorso per dottorandi e ricercatrici che vogliono continuare a lavorare nell’ambito accademico. «Si è portati a essere sempre più isolati – sottolinea Serena – e questo determina una grave perdita per quanto riguarda la qualità stessa del lavoro. Chi fa ricerca non dovrebbe vivere in un mondo a parte, ma al contrario la ricerca dovrebbe avere una ricaduta forte sulla società».

Un altro tema centrale riguarda ovviamente i finanziamenti. Eppure, a differenza di quello che si potrebbe pensare, spesso i finanziamenti ci sono, ma il problema è che la maggior parte vengono destinati a determinati ambiti, quelli considerati “utili”. Ma come si definisce l’utilità di una ricerca? Si tratta ovviamente di una categoria difficile da inquadrare tant’è che a risentirne sono soprattutto le materie umanistiche, che ricevono molto meno fondi rispetto a quelle cosiddette STEM.

Non è mancato, ovviamente, il dibattito sul tema dell’emergenza abitativa, che è un nodo cardine nel momento in cui si parla di diritto allo studio. Esso, infatti, passa e si realizza solo attraverso vari tasselli e il diritto alla casa è uno di questi. Basti considerare che su 80.000 studenti circa la metà sono fuorisede, eppure sono circa 2.000 i posti letto messi a disposizione da Er.go l’ente pubblico per il diritto allo studio; mentre la maggior parte dei fondi, anche quelli del Pnrr, sono stati spesso utilizzati per finanziare studentati privati, difficilmente accessibili a tutti e tutte.

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Sofia Centioni