Torna in scena al Comunale la Tosca per la regia di Giovanni Scandella diretta da Oksana Lyniv, già presentata, con lo stesso allestimento, la scorsa estate e volata in tournée in Giappone in autunno, grazie ai festeggiamenti per il centenario puccuiniano. Lo spettacolo musicalmente tende a mettere in rilievo la modernità pucciniana di artista del novecento, più che epigono del teatro italiano ottocentesco, che guarda alle proposte wagneriane adottando la tecnica dei leitmotiv. L’impianto registico non ha slanci di novità, usa pochi elementi scenici che rimandano alla Roma ottocentesca e papalina, lasciando il più possibile la scatola teatrale neutra.
Da questo allestimento emergono le sonorità pucciniane, l’impianto orchestrale, si colgono le raffinatezze della tessitura sonora nell’uso dei diversi strumenti, in particolare si colgono le piccole percussioni, i suoni dell’ochestra che rimandano alla vita cittadina intersecandosi con le campane della città di cui Puccini aveva studiato approfonditamente i timbri per riprodurli rendendo il risuonare in lontananza delle campane di diverse chiese.
Scandella ha scelto come regista di lasciare la scena quasi neutra rendendo protagonisti, afferma, i costumi della collega Stefania Scaraggi. Nel primo atto funzionano le poche sedie a simboleggiare le sedute di un intera chiesa, ma risultano quasi ridicoli i due elementi scenici costruiti, uno che rimanda a un ingresso della chiesa o ingresso alla cappella in cui lavora Cavaradossi e l’altro con una scaletta che porta il pittore alla tela su cui sta lavorando. Gli elementi scenografati, come nella sineddoche, assolvono alla funzione di mostrare una parte per il tutto, ma sono talmente tristi nella pretenziosità delle fattezze che forse sarebbe stato meglio lasciare le sedie e un cavalletto in cima a un nudo praticabile per dare maggiore coerenza all’idea dichiarata di volersi ispirare al teatro shakespeariano “dove la scenografia era quasi inesistente”. Più che voler proporre l’idea di neutro, Scandella sembra voler invece narrare la Roma sovrabbondante, barocca, papalina delle mille chiese, dipinti, processioni e fasti, ma accennandovi, con pochi elementi e minor spesa rispetto a sperperi di illustri predecessori. La cosa non è affatto disonorevole nell’intento, ma alla fine non risulta nè carne nè pesce. Non è né la scena vuota, neutra e disponibile per il gioco scenico dei cantanti e non è, e per fortuna, nemmeno la rappresentazione piena dello sfarzo dei palazzi romani. C’è un accenno dell’una e dell’altra scelta senza andare in fondo a nessuna delle due come per voler accontentare il pubblico che vuole Tosca con lo sfarzo ottocentesco, ma voler affermare al contempo che quel modo di fare regia è finito e che si può fare opera con più semplicità e minor sfarzo, anche con meno tecnologia, in un’atmosfera “di maggiore raccoglimento”. Il regista tiene i fondali dipinti che accennano allo sfarzo dei palazzi, mantiene la tavola riccamente imbandita con i candelabri e i pizzi, ma si libera della classica rappresentazione della prigione in cui è rinciuso nel terzo atto Cavaradosi per asumere una scena polivalente rappresentata dalle mura di Castel Sant’Angelo che in un angolo diventano prigione, poi svolgono propriamente il loro ruolo di muro per la fucilazione. La pulizia e neutralità del terzo atto che convince e coinvolge, non è stata assunta con convinzione in precedenza, come a tenere i piedi in due scarpe per non scontentare nessuno.
I costumi di Scaraggi e soprattutto le luci di Daniele Naldi tengono in piedi la parte scenica creando i personaggi e le atmosfere di quella Roma crudele, ricca, ingorda e anche popolare. In particolare nel primo atto, gli interventi del coro festante per la notizia della sconfitta di Napoleone e il loro movimento scenico, la sontuosa processione con in testa il Papa che sembra incantare, come pifferaio magico, tanto i nobili che pomposamente si presentano alla celebrazione, quanto la povera gente che ammira lo spettacolo, sono riusciti a creare interesse, hanno, per alcuni minuti, realmente fatto pendere la bilancia della scelta registica verso una narrazione fatta dagli attori/cantanti in scena, sorretti da luci e costumi, neutralizzando la presenza di quegli elementi scenici pretenziosi, ma poveri e poco riusciti.
Delude Roberto Aronica nei panni di Mario Cavaradossi, tiepidi gli applausi, una pietra che non brilla tanto che al suo confronto spicca nel primo atto Paolo Maria Orecchia, il baritono che veste i panni del Sagrestano capace di far sorridere prendendosi la scena. Convince invece Carmen Giannattasio nei panni della cantante Tosca. Brava nel primo atto a rappresentare la diva gelosa, grandiosa nell’atto dell’uccisione del perfido Scarpia, vendicatrice delle mille donne ricattate sessualmente da un potente che non sono state capaci di reagire nello stesso modo. Il suo Vissi d’arte è cantato con modestia ed eleganza, come una donna che cerca dentro di sé le ragioni di tanto oltraggio da parte di un uomo. Interpretazione credibile e godibile soprattutto messa a confronto con quanto avviene dopo, con il momento della decisione di non cedere alla violenza brutale del potente, ma di ucciderlo per non sottomettersi al suo volere rimandendo padrona del proprio destino. Concordo con l’affermazione di Scandella nell’intervista di Andrea Maioli riportata nel libretto e sopra già citata, quando propone, per il futuro, di chiudere Tosca al secondo atto con l’uccisione del mostro Scarpia: in un’epoca di riscrittura delle “favole”, sarebbe bello che l’eroina non dovesse al fine pagare ella stessa per la decisione presa, ma si potesse concludere con la sua vittoria sul torturatore. Propone Scandella di trasformare il terzo atto “in un sogno, il sogno di Tosca. Un viaggio onirico e non reale”. Non so se questo sarà mai possibile perchè in ogni caso bisognerebbe tradire la partitura pucciniana, ad ogni modo l’uccisione di Scarpia in questo allestimento è un momento alto grazie alla capacità attoriale di Giannattasio e la stessa forza è ripresa nel racconto che Tosca fa al suo Mario prima della fucilazione (che lei crede finzione), spiegandogli quanto è successo dopo che egli è stato portato in prigione e come sia riuscita ad avere il salvacondotto senza cedere realmente al ricatto sessuale di Scarpia. La cantante agli applausi finali ha ricevuto un paio di sonori “bu” che tuttavia ritengo immeritati perchè ha offerto una personale interpretazione del ruolo, onesta e sentita, non si può in eterno confrontarsi con i fantasmi del passato, occorre affermare se stessi o se stesse offrendo il proprio punto di vista sul personaggio o personaggia che sia.
Gabriele Viviani è un buon Scarpia, riesce a dare l’idea della sua crudeltà, della sua capacità di far tremare tutta Roma pur rimanendo imperturbabile, composto, dando ordini terribili di torrura e di morte nell’immobilità. Ogni ingresso del personaggio è sorretto da un tessuto strumentale potente, ricco, il tema di Scarpia crea la giusta tensione e rende visibile agli spettatori la sua capacità di seminare terrore, consentendo al cantante di praticare la sobria immobilità, il resto è tutto nell’orchestrazione tanto che in partitura non si prevede mai che il tema venga cantato dallo stesso Scarpia.
Lyniv, come direttrice che tanto ha diretto Wagner, lavora sui leitmotiv la cui tecnica fu ispirata a Puccini da Wagner, mette in luce il Puccini modernizzatore, le sue asprezze armoniche, pur presentate in un impianto tonale sorretto da melodie di grande impatto emotivo. Emergono gli elementi veristi, i suoni naturali, spari, campane, le melodie popolaresche che rimandano alla romanità, ma al contempo emergono i fili intricati delle melodie, le scelte degli assoli strumentali insoliti, emerge dall’esecuzione orchestrale quello che il musicologo statunitense Lockwood chiamò la “mente musicale meravigliosa e intricata” di Puccini che ha fuso la tradizione italiana del bel canto con le novità wagneriane entrando nel nuovo secolo con proposte che sono state valorizzate e apprezzate in seguito perchè il compositore è stato un precursore dei tempi.
Complessivamente si tratta di uno spettacolo godibile anche se con una patina opaca, una resa scenica che non scintilla. Emerge la parte strumentale, le interpretazioni canore sono valide, ma non provocano grandi entusiasmi finali. Un debutto, che è una ripresa per una produzione che viaggerà ancora in quest’anno pucciniano, una rappresentazione da tenere in memoria per i suoi lati piacevoli e interessanti, attendendo una prossima che provochi maggiori entusiasmi o anche maggiori polemiche riuscendo meno sbiadita e con colori più decisi in qualunque direzione essi portino.
Lo spettacolo è in scena fino al 30 aprile, in quella data sul podio ci sarà il maestro Serhii Nesteruk al posto della direttrice Lyniv, inoltre nel Foyer del Comunale Nouveau è in corso la mostra monografica di Michele Lapini “Retroscena”, con oltre 50 fotografie esposte che svelano il dietro le quinte degli spettacoli dal 2021 al 2024.