Privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica, impoverimento generale. Se questo scenario vi suona famigliare può essere per due ragioni: o state prendendo atto di quello che sta accadendo a causa della pandemia, della crisi energetica, della guerra in Ucraina o della crisi climatica o avete letto “Shock economy”, il libro di Naomi Klein, pubblicato nel 2007.
Il merito dell’autrice canadese è stato proprio quello di averci messo in guardia dal cinismo predatorio del neoliberismo, che provoca o approfitta di tragedie e catastrofi per lucrare e aumentare il proprio dominio.

Shock economy: il capitale approfitta dei disastri, come nel caso della pandemia

Quello che stiamo vivendo nell’ultimo triennio è uno scenario inedito, almeno in Europa e almeno nell’ultimo secolo. Mai come ora, infatti, ci siamo trovati immersi in molteplici crisi che si manifestano in contemporanea e che mettono alla prova le nostre stesse vite.
Da un lato c’è la pandemia, che dal 2020 ha sconvolto il mondo intero, le relazioni interpersonali, ma ha anche inferto un colpo micidiale ai sistemi sanitari pubblici dopo anni che questi ultimi venivano smantellati. Il diritto alla salute viene messo sempre più in discussione a causa di un’emergenza a cui le politiche pubbliche non hanno saputo dare risposta e il cui impatto, proprio come spiegava Klein, è stato amplificato dall’incapacità o dal dolo delle classi politiche.

Sul versante sanitario le criticità emerse sono innumerevoli. Oltre all’impreparazione nell’affrontare la pandemia e alla carenza di personale dovuta a decenni di tagli e blocco delle assunzioni, la sanità ha dovuto scontare anche scelte corporative a monte, che riguardano il mondo della formazione e il numero chiuso nelle Facoltà di Medicina.
Ma a piagare il sistema è stato anche un modello impostato sulla sussidiarietà col privato, che non solo durante la pandemia ha dato un contributo irrilevante, ma continua ad essere l’orizzonte delle scelte politiche superato l’occhio del ciclone pandemico. Gli stessi fondi del Pnrr, l’immane quantità di risorse europee prestate per ripartire dopo la pandemia, contengono meccanismi che rilanciano la sanità privata.

Non solo: il mancato rimborso da parte del governo ai servizi sanitari regionali delle spese extra dovute al Covid spingerà le Regioni verso nuove forme di sussidiarietà col privato se vogliono mantenere lo stesso livello di servizi.
Sul lato dei pazienti, le infinite liste d’attesa che si sono prodotte per esami specialistici e interventi, così come i ritardi nelle cure per patologie serie, come quelle oncologiche, spingono sempre più persone che hanno la disponibilità economica a rivolgersi alla sanità privata per poter esercitare il diritto alla salute che sarebbe costituzionalmente sancito.

A rinforzare ulteriormente lo smantellamento dell’universalità del welfare pubblico, anche sanitario, sono gli accordi in seno ai contratti nazionali di lavoro, che ampliano il mercato della sanità privata con il welfare aziendale e quello delle pensioni integrative, rompendo l’assioma secondo cui lo stato sociale e il welfare sono dei diritti universali che dovrebbero essere garantiti a tutti anche al di fuori del rapporto di lavoro.
Se ciò non bastasse, l’ultima legge di Bilancio, a pandemia non ancora superata, prevede nuovi tagli per la sanità pubblica.

Come provocare una crisi energetica per fare profitto: l’emblema della guerra in Ucraina

Se il Covid è una disgrazia per cui l’azione antropica non è così chiaramente accertata ed evidente, un’altra crisi, quella energetica, che stiamo vivendo è invece un esempio emblematico, da manuale, di come il capitale e le politiche neoliberiste si arricchiscano cinicamente sulle tragedie.
La premessa, in questo caso, riguarda le materie prime: nel mondo non vi è scarsità dei combustibili necessari per produrre energia, ma è da un lato la scelta di affidare al mercato finanziario anche risorse in larga parte primarie, ad esempio per il riscaldamento, insieme alla dipendenza energetica dall’estero e alle scelte in geopolitica inerenti al conflitto in Ucraina ad avere innescato una crisi che ha fatto schizzare la speculazione e il conseguente aumento dei prezzi.

Gli allarmi sul rischio per gli approvvigionamenti di gas che abbiamo registrato l’anno scorso e che sono misteriosamente cessati nella stagione invernale, proprio quando il fabbisogno raggiunge il suo picco, avevano un duplice scopo. Da un lato servivano ad allarmare la popolazione, predisponendola ad accettare rincari immotivati che garantissero i profitti delle multinazionali energetiche, dall’altro servivano a giustificare scelte di politica energetica diventate impopolari a causa della crisi climatica.
Il risultato è che le bollette dei cittadini sono lievitate, assieme ai profitti delle compagnie energetiche che non hanno alcuna intenzione di rinunciare alle proprie immeritate ricchezze.

Anche in questo caso, sono le scelte neoliberiste della stessa classe politica ad aver esposto i cittadini e le cittadine alle conseguenze della speculazione. Prima privatizzando la produzione, poi intervenendo anche sulla distribuzione. Anche se non formalmente privatizzate, ma gestite con forme societarie partecipate, le multiutility dei servizi energetici seguono le logiche e le leggi del mercato e l’azione del pubblico, anche se socio di maggioranza nelle società, non può (o non vuole) fare nulla per calmierare l’impatto inflattivo. La perversione dei meccanismi creati, al contrario, ha generato una dipendenza degli stessi enti locali dai dividendi di società quotate in borsa per la quadratura dei propri bilanci.

La crisi climatica: una triste profezia su quello che accadrà

In larga parte la crisi energetica sta servendo anche per rallentare le politiche a contrasto della crisi climatica. Che vi sia o meno una precisa volontà, poco importa: il risultato è comunque quello secondo cui la contingenza giustifica e condiziona la transizione verso un modello più sostenibile.
Di fronte alla crisi energetica, infatti, le risposte potevano essere due: o una strada che diminuisse la dipendenza energetica del nostro Paese dall’estero e da fonti fossili, contribuendo in questo modo anche a contrastare la crisi climatica, o semplicemente cambiando fornitori. Inutile dire che l’Italia ha scelto questa seconda strada, venendo meno anche ai criteri etici che ci avrebbero spinti ad abbandonare il gas russo.

Come se la pandemia e la crisi energetica non bastassero, però, anche nei nostri territori i cambiamenti climatici si manifestano con sempre più intensità. I morti della Marmolada, quelli delle Marche e di Ischia sono conseguenza di fenomeni metereologici sempre più imprevedibili ed estremi.
Non meno grave è la siccità che ha colpito vasti settori del Nord Italia, che è destinata a protrarsi per il calo delle precipitazioni nevose che sta assumendo un carattere strutturale.
La scarsità di acqua produrrà inevitabilmente un aumento dei prezzi di produzione in agricoltura, che a pioggia (scusate l’ironia dell’espressione idiomatica) saranno fatti pagare ai consumatori.

Poiché anche un bene prezioso e primario come l’acqua è assoggettato ai meccanismi del mercato, in particolare a quello di domanda e offerta, è facile profetizzare che in uno scenario di scarsità idrica aumenteranno i prezzi, alzando l’asticella dell’accesso alla risorsa, alla base della stessa vita.
Anche in questo caso, per i meccanismi descritti in precedenza, il pubblico potrà fare poco o nulla nei confronti di società che inseguono il profitto e la cittadinanza sarà nuovamente esposta a spinte inflattive che riducono il potere d’acquisto e, in sostanza, il benessere collettivo.

La controprova della shock economy: l’aumento della forbice delle disuguaglianze

Che prove ci sono per mettere in relazione crisi così diverse fra loro? È possibile dimostrare una matrice comune nella predazione del capitale, al punto da sostenere l’esistenza stessa della shock economy?
La risposta è sì. E una prova è rappresentata dall’ultimo report di Oxfam, diffuso alla vigilia del World Economic Forum di Davos. L’analisi delle ong certifica che, anche in presenza di profonde crisi di diversa natura, i ricchi hanno guadagnato e incrementato i loro patrimoni.

Non solo: per la prima volta in 25 anni, si è registrata la contemporaneità di due fenomeni: l’aumento della ricchezza nelle mani di pochi e l’aumento della povertà estrema, segno che ad essere intaccata è ormai anche la classe media, che scivola velocemente verso il basso.
A suggellare il cinismo predatorio del capitale vi è addirittura una pratica che va oltre le stesse regole del mercato create per garantire profitti: la greedflation. Oltre a non conoscere crisi, i ricchi del pianeta mettono in atto anche pratiche che rappresentano una sorta di “speculazione nella speculazione”. In particolare, la greeflation consiste in un aumento dei prezzi per ottenere un vantaggio dall’inflazione e aumentare il proprio margine di profitto, anche se non ce n’è bisogno poiché i costi di produzione non hanno subito un incremento tale da giustificare l’aumento dei prezzi.

Di fronte a tutto ciò la politica appare incapace, subalterna e succube. In Italia le famigerate imprese vengono costantemente evocate in ogni dichiarazione, anche quando in discussione ci sono misure per aiutare la popolazione. Quasi come se l’impresa fosse un essere animato e meritevole di sostegno. Quest’ultimo elemento tradisce le profonda penetrazione dell’ideologia neoliberista nella classe politica, che è la stessa che, più o meno consapevolmente, spesso prepara il terreno alla predazione stessa.
Solo una presa di coscienza di tutto ciò può rappresentare l’ultima disperata speranza di sottrarci alla morsa del capitale, che ogni giorno si stringe sempre più forte attorno alle nostre esistenze.