Sono tredici gli anni che hanno separato la famiglia Cucchi dalla morte di Stefano all’ottenimento della giustizia. Tredici anni fatti di dolore, di insulti da parte di importanti figure politiche istituzionali, depistaggi, omertà, indagini monche, omissioni. Ma tredici anni anche di coraggio da parte di Ilaria, di solidarietà dal basso, di determinazione da parte dell’avvocato Fabio Anselmo, di interesse da parte del giornalismo più attento, di iniziative e di battaglie anche le purtroppo tante altre persone che hanno subìto la sorte di Stefano.

Giustizia per Stefano Cucchi: l’anomalia per inceppare l’ingranaggio

Con la condanna definitiva a 12 anni per i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro per le botte che diedero al giovane provocandogli lesioni che lo condussero alla morte, si chiude una vicenda emblematica che ci parla della violenza e del senso di impunità che contraddistingue ampi settori delle forze dell’ordine italiane. Violenza e impunità che spesso hanno avuto una reverenziale e colpevole copertura politica. La condanna definitiva non restituirà Stefano a sua sorella e alla sua famiglia, ma rappresenta un filo di speranza verso una giustizia giusta.


Ora starebbe ai decisori politici agire sul fronte della prevenzione, in modo che i casi Cucchi, Aldrovandi, Uva e le altre decine che si registrano in Italia non accadano più. Purtroppo, però, quello che vediamo è l’esatto opposto, con le forze dell’ordine che vengono equipaggiate con i Taser, che l’Onu considera strumenti di tortura. L’investimento in armi, ora col pretesto della guerra in Ucraina e ieri con quello del business, invece che un investimento in welfare spiega benissimo perché la politica abbia bisogno di forze dell’ordine violente. In questo contesto la giustizia ottenuta con tanta fatica per Stefano Cucchi è un’anomalia, un granello di sabbia che speriamo possa inceppare gli ingranaggi.