Il grande inganno del sottocosto
“Supermercati, il grande inganno del sottocosto” è il titolo della prima puntata del reportage pubblicato su Internazionale e firmato da Fabio Ciconte e Stefano Liberti. Al setaccio le pratiche scorrette della Grande Distribuzione Organizzata (Gdo), che fa pagare ai produttori gli sconti offerti ai clienti. Liberti partecipa alla campagna di Gvc “Make Fruit Fair!”
Com’è possibile che nei supermercati si vendano prodotti sottocosto? Chi paga i forti sconti di cui usufruiamo quando facciamo la spesa? Domande che possono sorgere di fronte alle promozioni che incontriamo ormai quotidianamente nei supermercati.
Una risposta arriva dal reportage a puntate di Fabio Ciconte e Stefano Liberti, pubblicato su Internazionale (qui e qui le prime due puntate).
Il reportage parte dalle offerte cosiddette ‘sottocosto’ che vediamo in tutti i supermercati e su come sono diventate la principale strategia di marketing per attrarre i clienti che, abbagliati dal risparmio, non sanno di alimentare un sistema completamente sbilanciato all’interno della filiera produttiva.
“Quando entriamo in un supermercato – spiega il co-autore dell’inchiesta Stefano Liberti – ci accorgiamo che il principale modo per attrarre i consumatori sono le offerte sottocosto, ovvero offerte e scontistiche di vario genere, con cui le varie catene cercano di farsi concorrenza”.
L’inchiesta cerca di capire chi effettivamente paga per queste offerte ed emerge che non sono i i gruppi della grande distribuzione organizzata (Gdo) a farsi carico della perdita di marginalità, ma sono tutti gli altri attori della filiera, quindi i produttori ortofrutticoli e gli industriali dei prodotti trasformati, a cui viene imposto per contratto l’abbassamento dei prezzi di listino per mantenere in piedi questo sistema di offerte.
Dal momento che esiste questa sproporzione tra la forza della gdo e la debolezza dei fornitori agricoli e industriali, questi ultimi sono costretti a sottostare a condizioni capestro, finendo per produrre con margini minuscoli. Di conseguenza, non sono in grado di rinnovare le loro produzioni e sono di fatto costretti a produzioni dove il più delle volte l’elemento che ne risente maggiormente è la qualità.
Orientarsi all’interno dei contratti tra gdo e fornitori è un impresa che richiede tempo e molta esperienza. Esistono diverse voci ‘fuori fattura’, contributi di vario genere che integrano i listini e di fatto sono servizi che le catene della gdo di fatto impongono ai fornitori.
A partire dalla cosiddetta listing fee, ovvero una somma da versare per ogni prodotto che viene messo su uno scaffale di un supermercato. Una partita di giro in cui la gdo compra dal fornitore e il fornitore a sua volta deve pagare la gdo per stare sullo scaffale.
Oppure il contributo una tantum che la gdo chiede ai fornitori quando apre un nuovo punto vendita. In pratica si chiede al fornitore di accollarsi parte del rischio d’impresa.
Secondo l’autorità antitrust, l’incidenza di sconti e contributi risulta essere pari al 24,2% del fatturato delle singole aziende fornitrici nei confronti della catena cliente. In pratica, se il fornitore vende a 10 il suo prodotto, è come se in realtà lo stesse vendendo a 7,5, sacrificando il suo margine di guadagno.
E chi non sta a queste condizioni subisce il cosiddetto delisting: i prodotti vengono eliminati dai punti vendita, il che equivale, in molti casi, al fallimento di chi li produce.
Perché a livello politico non si fa nulla al proposito per riequilibrare la situazione? “La politica non è intervenuta – sostiene Liberti – perchè ritiene che i prezzi bassi rappresentino una sorta di ammortizzatore sociale in un’epoca in cui la popolazione ha scarso potere d’acquisto”. Questa pratica però, secondo l’inchiesta, ha una visione piuttosto miope, in quanto il prezzo basso ha un costo sociale ed economico che colpisce tutta l’economia e che risulta essere molto più alto dei vantaggi che potrebbe trarne la popolazione. Con l’acquisizione di alimenti a basso costo ma di scarsa qualità, si rischiano conseguenze ben peggiori.
Questa filiera disfunzionale, fatta di costi bassi di fatto va inoltre ad alimentare pratiche di sfruttamento selvaggio tristemente note, come il caporalato, purtroppo tuttora di grande attualità.
Come possiamo arginare questo sistema, tutti noi in quanto consumatori? “Il cittadino consumatore – conclude Liberti – ha un grande potere, quello di chiedere una filiera il più trasparente possibile e costringere la gdo ad indicare da quali aziende vengono i prodotti agricoli e industriali che consuma, da dove viene la materia prima e quali processi ha subito, in modo da attivare una sorta di controllo sociale, che consenta al cittadino di fare scelte consapevoli”.
Il che potrebbe significare essere disposti a pagare anche di più un prodotto di cui si conosce quasi tutto e che, nel contempo, renda difficile per la gdo l’approvvigionamento da aziende che utilizzano manodopera a basso costo e sfruttata.
La filiera dell’agroindustria e i suoi meccanismi sono un tema di grande attualità, dove l’informazione gioca un ruolo chiave nel far prendere coscienza delle necessità di acquistare e consumare solo prodotti che rispettino determinate regole sociali ed economiche ed evitare di diventare (indirettamente) caporali di lavoratori sottopagati e sostenitori di pratiche industriali dannose per la salute.
Liberti sta per partire per Haiti e per la Repubblica Dominicana insieme a Gvc, all’interno di “MakeFruitFair! “, la campagna europea per fermare lo sfruttamento dei lavoratori delle piantagioni di frutta tropicale. “Cercheremo di capire come avviene la produzione di alcuni frutti tropicali, in particolare la banana, e come funziona la filiera”.
Stefano Cottignola