Sindacalizzare uno dei settori meno sindacalizzati di tutti, l’hi-tech. Unire tutti i lavoratori della filiera della tecnologia – dal programmatore all’addetto mensa del campus Google passando per il rider e chi estrae coltan in Congo. Costruire un’organizzazione sindacale orizzontale, democratica, attraente. Sono questi gli ambiziosi obiettivi della Tech Workers Coalition.

Il gruppo nasce negli Stati Uniti, a San Francisco, attorno al 2014. I fondatori – Rachel Melendes e Matt Schaefer – erano ai tempi rispettivamente impiegata della mensa in un’azienda della Silicon Valley e ingegnere. Una composizione che lascia trasparire fin dalla partenza uno dei principi cardine del movimento: i lavoratori si organizzano non in base alle mansioni, ma a seconda di chi li impiega. Nel concreto, significa che le rivendicazioni dentro la stessa azienda non vanno divise a seconda dei settori – i creativi avanzano le loro richieste, i tecnici le loro differenti e così via – ma raccolte e portate avanti collettivamente da tutti i dipendenti di uno stesso gruppo e, in prospettiva, dall’intera filiera. L’obiettivo è quello di evitare la storica divisione tra colletti bianchi e colletti blu – siano essi intesi come operai, lavoratori della logistica, addetti alle pulizie.

Tech Workers Coalition: portare il sindacato nei settori meno sindacalizzati di tutti

Dall’esperienza di Melendes e Schaefer la Tech Workers Coalition si diffonde nel resto degli Usa. Le sezioni locali fiorite in diverse città conducono vertenze in Google, Facebook, Hyatt. Organizzano proteste contro le società che forniscono software all’Ice, il famigerato ente statunitense per l’immigrazione. Partecipano al primo maggio e agli scioperi globali per il clima di Fridays For Future. E dal nord America il movimento si diffonde in Europa e India. Tech Workers Coalition Italia nasce nel 2020, all’inizio come distaccamento della sezione berlinese e poi come entità autonoma. Il gruppo italiano ha scelto per ora di non strutturarsi come un sindacato ai sensi della legge, ma di agire a livello di movimento – pur collaborando con diverse realtà sindacali strictu sensu.

«Noi ci definiamo alt-labour, un anglicismo per indicare che ci occupiamo dei temi del lavoro pur non essendo ad ora né un sindacato né un partito» a parlare ai nostri microfoni è Simone Robutti, uno dei fondatori di Twc nel nostro paese. «Organizzare i lavoratori in base alle mansioni e non al datore di lavoro è stato un grave errore del passato nel mondo hi-tech» ci spiega «penso agli scioperi in Ibm dell’Italia negli anni ’70, portati avanti da chi faceva hardware senza il supporto degli ingegneri. Per noi tech worker è chiunque lavori nell’industria tecnologica. Nella pratica, ovviamente, ci sono ancora degli ostacoli a questa unità. Alcune categorie sono già organizzate per conto proprio e non si riconoscono come tech worker – penso ad esempio ai rider – e bisogna ovviamente dialogarci senza forzature. Poi manca un’identità condivisa, e ad ora la nostra organizzazione raggiunge sopratutto persone – programmatori, ingegneri, creativi, copywriter – che storicamente non si riconoscono nemmeno come lavoratori. La mentalità del self made man, dell’imprenditore di sé stesso solo temporaneamente impiegato per qualche azienda in attesa del successo, è ancora fortissima nei nostri settori. Costruire queste alleanze, insomma, è ancora un lavoro in divenire».

Quali sono allora gli ostacoli alla sindacalizzazione di queste nuove categorie di lavoratori, chiediamo. «In primis manca una storia, gli esempi. Se sei un portuale a Genova hai di fronte a te chi queste cose le fa da quarant’anni. Nel tech no, se non per poche, sparute eccezioni. Anche le nostre vittorie attuali, poi, sono raccontate poco e male. Manca ancora una narrativa efficace ed un sistema mediatico pronto a parlarne – non a caso Tech Workers Coalition produce anche newsletter ed informazione online. Infine, i problemi e le richieste di queste categorie sono spesso diverse da quelle classiche – salario e orario contrattuale. Un tema poco nato ma molto sentito tra tecnici e creativi, ad esempio, è quello del crunching, il lavoro ad oltranza, straordinario non pagato che porta a stress e sfruttamento. Poi il diritto allo smart-working, molto discusso in questi anni e molto avversato dalle aziende e anche dal nostro governo. Infine il diritto alla formazione, che dovrebbe essere a carico del datore di lavoro e contrattualizzato, e invece ora e va a pesare sui portafogli e sul tempo libero dei lavoratori».

Nel lavoro quotidiano di Twc, un ruolo fondamentale è il rapporto con le altre realtà del lavoro organizzato. «Noi abbiamo un’attitudine ecosistemica al sindacalismo. Abbiamo contatti con tutto l’arco sindacale che si interessa dei tech workers – che non è enorme. Stiamo lavorando ad un modello che chiamiamo Union Path Finding, un modo per mettere in contatto i lavoratori col sindacato più adatto alle loro istanze. Per questioni più individuali li affidiamo ai confederali, in presenza di gruppi più coesi e radicali dialoghiamo con i sindacati di base e altre realtà più pepate – dalla Fiom in poi». E tutti accettano di parlare con voi? «Non sempre. L’idea che i tech workers possano essere una categoria cruciale della nostra epoca, qualcosa di simile agli operai di fine Ottocento, non è sempre condivisa dal resto del mondo del lavoro».

In chiusura chiediamo a Robutti di lasciarci con una buona notizia per il suo settore. «Non posso che risponderti con la vicenda dell’Amazon Labour Union a New York, la prima rappresentanza sindacale in Amazon negli Usa. Una grande notizia perché segna un precedente e mostra diverse cose. In primis che la propaganda antisindacale di Amazon – agguerritissima – si può sconfiggere. Poi che un modello come quello di chi ha ottenuto questo risultato nel magazzino – anche loro alt-labour, dal basso – funziona. E funziona la mediatizzazione – cosa che non era accaduta qualche anno fa in Alabama su vicende simili. La vittoria in Amazon si è raggiunta anche perché i lavoratori sono stati pop, attenti alla comunicazione, ambiziosi. Un esempio».

ASCOLTA L’INTERVISTA A SIMONE ROBUTTI:

Lorenzo Tecleme