Da lunedì 8 marzo oltre 6 milioni di studenti potrebbero seguire le lezioni da casa, se i governatori regionali disporranno la sospensione delle attività in presenza dove vi siano più di 250 contagi settimanali ogni 100mila abitanti. È la conseguenza di quanto disposto dal nuovo Dpcm in vigore dal prossimo 6 marzo. La proiezione del numero di alunni costretti alla didattica a distanza (Dad) è stata elaborata dalla rivista specializzata Tuttoscuola e potrebbe portare quindi a un raddoppio rispetto agli oltre 3 milioni di alunni che dallo scorso 1° marzo risultano in Dad.
Nel complesso, «circa tre quarti (il 73%) degli 8,5 milioni di alunni iscritti nelle scuole statali e paritarie saranno impegnati nella didattica a distanza», sintetizza la rivista.

Scuole, nel mondo la deprivazione educativa riguarda Paesi già poveri

Alunne ed alunni italiani, però, sono in buona compagnia. Secondo nuovi dati Unicef, per 168 milioni di bambini in tutto il mondo le scuole sono state completamente chiuse per quasi un anno intero a causa dei lockdown per il Covid-19. Inoltre, circa 214 milioni di bambini a livello globale – ovvero 1 su 7 – hanno perso più di tre quarti di scuola in presenza. L’analisi sulla chiusura delle scuole mostra che, tra marzo 2020 e febbraio 2021, le scuole sono rimaste in gran parte chiuse in 14 Paesi nel mondo. Due terzi di questi paesi sono in America Latina e nei Caraibi, colpendo circa 98 milioni di studenti. Di questi 14 paesi, Panama ha tenuto le scuole chiuse più a lungo, seguita da El Salvador, Bangladesh e Bolivia.

«Avvicinandoci al 1° anno di pandemia da Covid-19, ci viene nuovamente ricordata la catastrofica emergenza dell’istruzione che le chiusure a livello mondiale hanno creato. Ogni giorno che passa, i bambini che non possono accedere all’istruzione in presenza rimangono sempre più indietro, e i più emarginati pagano il prezzo più alto – ha dichiarato Henrietta Fore, direttore generale dell’Unicef – Non possiamo permetterci di passare a un secondo anno di apprendimento limitato o addirittura assente per questi bambini. Non si dovrebbe risparmiare alcuno sforzo per tenere aperte le scuole, o dare loro la priorità nei piani di riapertura».

Emilia-Romagna, l’appello dei sindacati e il problema irrisolto

In Emilia-Romagna, con Bologna e Modena che si apprestano ad entrare in zona rossa, la situazione non è migliore. Ieri i sindacati confederali hanno lanciato un appello per accelerare sul piano vaccinale per il personale scolastico. «Siamo in ritardo, non si può perdere altro tempo – segnalano i sindacati – Il virus non aspetta, la scuola deve tornare in sicurezza e in presenza».
In particolare, la scelta di aver affidato la vaccinazione del personale scolastico ai medici di base non sembra aver prodotto risultati positivi. Nonostante la possibilità di prenotare la vaccinazione sia in vigore dal 22 febbraio, sono diverse le criticità organizzative che si stanno manifestando e che rallentano la somministrazione del vaccino e relegano l’Emilia-Romagna tra le ultime regioni per percentuale di personale scolastico vaccinato a livello nazionale.

Ad un anno di distanza dallo scoppio della pandemia, dunque, le autorità nazionali e locali non sembrano aver trovato una soluzione per garantire che la scuola si svolga in sicurezza e in presenza. Allo stato attuale, infatti, anche vaccinare il personale scolastico non risolverebbe completamente i problemi. Le varianti del Covid, in particolare, sembrano colpire soprattutto i giovani, che diventano veicolo dei contagi in famiglia.
«Io ritengo sbagliato che la scuola venga chiusa prima che altre provvedimenti restrittivi abbiano riguardato attività produttive, credo sia sbagliata la scala di priorità», osserva ai nostri microfoni Luigi Giove, segretario della Cgil dell’Emilia-Romagna.

Il sindacalista sottolinea come sia inaccettabile che si sia perso un anno di tempo senza risolvere i problemi strutturali delle scuole, che esistevano prima della pandemia ma che sembrano favorirla, come la questione dell’edilizia scolastica, delle aule pollaio e dei trasporti. «Credo che gli effetti negativi siano francamente inaccettabili – continua Giove – sia quelli sulle famiglie, sulla loro conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, sulla loro economia, ma soprattutto sui bambini e le bambine, sulla loro socialità e il loro apprendimento».

Non è tutto. Nell’allegato all’ordinanza che istituiva la zona arancione scuro per l’Area metropolitana di Bologna, infatti, si leggeva che nelle scuole erano attivi 40 focolai, mentre nei luoghi di lavoro il numero saliva a 58. «A me piacerebbe sapere a livello regionale quanti sono i focolai attivi nei luoghi di lavoro – sottolinea il segretario della Cgil regionale – anche per verificare se il protocollo siglato la primavera scorsa è ancora adeguato ad affrontare il nuovo scenario».
Giove, inoltre, mette in discussione la narrazione sugli studenti come veicolo di contagio, che sia le istituzioni che la stampa stanno portando avanti. Le scuole, grazie a screening con tamponi rapidi, sono state monitorate costantemente. Non altrettanto si può dire per le attività produttive. Se i principali focolai si verificano in famiglia, quindi, è da verificare se a portare il virus siano stati gli studenti dalle scuole o i genitori dai luoghi di lavoro.

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