Le scuole, dal primo lockdown a oggi, sembrano non trovare pace.
Sono state le prime ad aver chiuso a fine febbraio, le più problematiche da far riaprire a settembre. Quando finalmente sono ricominciate le lezioni, alcuni plessi si sono trovati in difficoltà per mancanza di docenti e personale Ata. Il Covid ha colpito anche loro, ovviamente, con casi di positività fra alunni e professori. Alcune classi sono state messe interamente in quarantena. E ora, con la seconda ondata, licei e medie sono tornati interamente in didattica a distanza, mentre le scuole elementari rimangono aperte solo per un braccio di ferro fra il Ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina e i presidenti delle Regioni.
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Il futuro sembra incerto per tutti, da quando è iniziata la pandemia. Molto di più lo è per le scuole, già provate da una didattica a distanza che è durata tre mesi durante il primo lockdown e che ora rischia di ripetersi, o è già realtà nelle scuole superiori e medie.
A settembre, con grandi incertezze e dibattiti accesi, hanno ripreso le lezioni in presenza per tutti i plessi in Italia, e già le prime difficoltà hanno fatto capolino: insegnanti e personale Ata denunciavano una sostanziosa mancanza di organico nelle scuole.
«All’inizio della scuola eravamo in sottorganico: una maestra è stata parecchi giorni senza il collega. Poi è arrivato, ma saranno passate due settimane se non tre. Alcuni chiamati non hanno risposto perché erano ricongiunti alle famiglie nelle regioni come Calabria, Puglia o Sicilia, le regioni che sono bacino d’utenza maggiore per la scuola», afferma Angelica Checchia, insegnante di prima elementare nelle scuole elementari Manzolini di Bologna.
Jacopo Frey, di Cobas Bologna, ha spiegato il motivo di questa mancanza di organico, affermando che, in ogni caso, ora la situazione è migliorata: «La situazione è stata leggermente sanata nel momento in cui è stato nominato il personale docente e Ata in supplenza. Sono arrivati molto in ritardo perché, da parte del Ministero, è stato posto un netto rifiuto alla stabilizzazione del personale docente con almeno tre anni di servizio, il quale è stato sottoposto, proprio in questi giorni, a concorsi straordinari che, sostituiti da un’assunzione per solo titoli e servizi come avevamo richiesto, avrebbero permesso di avere una parte del personale in servizio da settembre. La crisi dell’epidemia Covid ha portato allo scoperto problematiche che ci sono da più di dieci anni: quello della mancanza di personale è il problema più evidente di cui si è parlato a settembre e poi non se n’è parlato più».
Nonostante le difficoltà, la scuola riparte e cerca di farlo rispettando le regole sul distanziamento e sull’uso dei presidi chirurgici raccomandati e obbligatori. Per tenere a bada i possibili casi di positività nei plessi, nel territorio di Bologna e provincia viene attivato un protocollo di tracciamento: fra il personale scolastico, viene nominato un responsabile Covid che segnali all’Ausl di eventuali casi sospetti o positivi fra alunni e insegnanti. Nel caso in cui ci sia un positivo, i referenti scolastici sono tenuti a segnalarlo tempestivamente e fornire l’elenco degli studenti della classe ed elementi per la ricostruzione dei contatti stretti avvenuti nelle 48 ore prima dei sintomi. Il passo successivo, poi, è la quarantena preventiva e tampone per tutti. nel caso in cui i tamponi fossero negativi, si può tornare in classe senza problemi, mentre se positivo per altri alunni, allora lì scatterebbe la quarantena vera e propria, sempre per tutti.
Il 30 ottobre, l’assessore comunale alla scuola Susanna Zaccaria, durante una conferenza stampa ,spiegava brevemente la procedura, affermando che, in caso di crescita esponenziale dei casi, il tracciamento sarebbe stato più difficoltoso. E così è successo: da quello stesso giorno, però, l’Ausl di Bologna ha interrotto la stesura del bollettino quotidiano dei contagiati nelle scuole.
I casi di positività nei plessi di Bologna e provincia erano, fino al 30 ottobre, 164, con 6 classi intere messe in quarantena. Da quel giorno, non si sa più nulla dei contagiati nelle scuole bolognesi.
Dall’apertura a oggi sono passati quasi due mesi. Due mesi in cui si è tornati a una crescita esponenziale dei contagi, da poche decine di morti a oltre 600, come a marzo. È stato quindi necessario richiudere le scuole, lasciando aperte solo le elementari, perché nelle scuole non ci sono solo bambini: ci sono genitori e nonni che aspettano i figli alle uscite, insegnanti anziani che possono essere soggetti a rischio, bambini asintomatici che prendono i mezzi sovraffollati. E se il tracciamento fallisce, se la curva epidemiologica è fuori controllo, se i casi aumentano ovunque, la scuola non può che trasformarsi in un mezzo di trasmissione fuori controllo, da cui possono nascere focolai.
E così torna la didattica a distanza che, a detta di tutti, non può reggere il confronto con quella in presenza «Molto meglio la didattica in presenza, perché a casa ti distrai con un nulla. Il rapporto con il professore è sbagliato perché la connessione salta, va a scatti, ti distrai e alla fine, di quello che ti spiega in un’ora, capisci due minuti. In presenza, oltre ad avere un rapporto migliore professore alunno, riesci a capire molte più cose che vengono spiegate», racconta Flavio Loquaci, studente di liceo al terzo anno.
«Siamo molto più preparati a un’eventuale chiusura totale, rispetto alla prima ondata, perché abbiamo fatto tanti investimenti e quindi abbiamo molti devices per la didattica a distanza. Il problema però resta sempre la fragilità delle famiglie più deboli, quelle che hanno bisogno di essere più tutelate. In ogni caso, sono cambiati anche i parametri.
Una chiusura di tutto prevede comunque che alunni con disabilità vengano supportati di più, anche con un’eventuale didattica in presenza. È ovvio che meglio una didattica in presenza, ma se queste sono le indicazioni che servono per abbassare la curva del contagio, tutto si farà per tutelare la salute e garantire il diritto allo studio», spiega Tiziana Faiella, dirigente scolastico dell’istituto comprensivo n.8 di Bologna.
«La chiusura totale tutela tutti, ma per le famiglie torniamo a uno stress maggiore. Per noi insegnanti sarebbe meno pericoloso chiudere le scuole e, se sarà necessario, si chiuderà. Finché si può, son d’accordo a tenere aperto con una certa cautela», conclude Angelica Checchia.
Certamente, la pesantezza della situazione non può che ricadere sugli studenti:. Secondo un report di Save the Children Italia, redatto in collaborazione con Ipsos, la pandemia e la chiusura delle scuole hanno cambiato la vita dei bambini e delle loro famiglie. Le rilevazioni, effettuate durante i mesi di lockdown, indicano un progressivo aumento dell’incidenza della povertà materiale e del learning loss cognitivo, socio-emozionale e fisico, provocato dal lungo confinamento e dalla mancanza di infrastrutture e competenze digitali adeguate a scuola e a casa. La perdita educativa rischia di colpire in particolare i minori che già si trovavano in condizioni di svantaggio educativo e a essa si aggiunge ora il rischio, per altri bambini ed adolescenti, di scivolare nella povertà, materiale ed educativa.
Carlotta Bellomi, responsabile dei progetti scuola di Save the Children Italia, ci ha confermato questo andamento: «la parola incertezza emerge con maggior forza. Bambini, ragazzi, docenti ma anche genitori non sanno come proseguirà l’anno scolastico, non sanno se la settimana successiva saranno ancora accolti a scuola o se dovranno intraprendere altre forme come la didattica a distanza Sappiamo che ancora oggi, a livello nazionale, è presente un forte digital divide sostanzioso: il Ministero dell’Istruzione segnala 336.000 alunni senza connessione e mancano ancora 280.000 dispositivi elettronici per far si che ogni studente possa accedere alla proposta a distanza che ogni scuola organizzerà».
Ma qual è il comportamento più adatto che un genitore può adottare di fronte a un momento difficile e delicatissimo come questo? Lo ha spiegato, per i nostri microfoni, la dottoressa Rosa Agosta, psicologa psicoterapeuta di Bologna: «Gli adulti hanno la funzione di dare un senso di protezione: ai bambini va comunque raccontata la realtà, la realtà di un pericolo, però riuscendo a sostenere la loro fiducia. Bisogna reggere cambiamenti, restrizioni e deprivazioni pensando di poter uscirne insieme. I bambini molto piccoli possono non capire concretamente il perché vedano la mamma o l’educatrice con la mascherina. Ma se l’adulto la porta con naturalezza e raccontano al bambino che la mascherina serve per star tranquilli, per proteggerci da un virus, e che portandola possiamo fare le cose di prima come andare al nido, o passeggiare insieme, questo i bambini lo reggono.
Per i più grandi, adolescenti o preadolescenti, uno degli elementi di ansia che si muove in loro è l’angoscia di derealizzazione, la minaccia ai propri progetti, la perdita del futuro. Questo alcuni ragazzi lo dicono esplicitamente, altri negano in modo onnipotente il pericolo, sfidandolo un po’. Se gli adulti con un linguaggio congruo all’età, verbalizzano e riconoscono queste ansie dandogli un senso e spiegando loro che si possono fronteggiare, puntando sulla consapevolezza e sul senso di appartenenza e solidarietà, allora capiranno che ci si può proteggere, che ce la possono fare e che hanno senso queste restrizioni».
Matilde Gravili
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