La lotta dei minatori sardi per la riconversione della miniera. Le Istituzioni hanno negato i 200 milioni per creare energia pulita. 463 lavoratori rischiano il posto.

Se dovessimo trovare un luogo preciso da cui parte il malessere italiano, se dovessimo individuare la pentola che bolle e la polveriera di questa storia chiamata “Crisi”, il Sulcis in Sardegna sarebbe la regione protagonista. A leggere i giornali ci si confonde fra le tante vertenze: troppe aziende a Portovesme chiudono, troppi lottano per il lavoro, troppe storie di povertà si accavallano fino a non capire più chi ci sia dietro ogni singola lotta e protesta.

Quelli di cui parliamo oggi sono gli ultimi minatori della Sardegna, gli ultimi se la Carbonsulcis chiude come drammaticamente è previsto.

Ma cosa è la Carbosulcis? Come accennavo prima è una società della Regione Sardegna che gestisce l’ultima miniera di carbone rimasta in Italia, quella di Nuraxi Figus, vicino a Portoscuso. È nata nel 1976 dopo la chiusura delle miniere in seguito alla presa di coscienza che il Carbone, oro per la Sardegna, non era più conveniente da estrarre. Fu così rilevata dall’Enel e, a causa delle proteste dei lavoratori, che già vedevano nella conversione industriale che li attendeva un fallimento (come è stato), mantenuta per evitare di aggravare la situazione occupazionale del territorio. Ma nell’88 arrivano i primi aiuti pubblici per salvarla, si decide così di ridurre l’inquinamento destinando l’estrazione alla gassificazione e alla produzione di energia termoelettrica. Nel ’95 viene messa all’asta e siccome nessuno pareva interessato venne acquistata dalla Regione Sardegna che avrebbe dovuto accompagnare l’azienda verso la privatizzazione.

Il 26 agosto 2012 alle ore 22:30, una trentina di minatori si asserraglia a 373 metri di profondità. La rabbia esplode quando non arriva una risposta in merito ai finanziamenti per rilanciare la miniera attraverso la produzione di energia pulita da carbone attraverso la cattura di Co2 dal terreno.

Se questi investimenti, si tratta di 200 milioni di euro, saltassero per i 463 lavoratori e le famiglie sarebbe un duro colpo. Si sa che in tempi di crisi abbandonare una produzione al suo destino significa farla fallire nella competizione economica e sancirne la morte. Ma la morte di una attività significa la fame per chi ci vive. A poca distanza i lavoratori Alcoa sperano nell’incontro decisivo il 31 agosto fra il ministro De Vincenti e Glencore, anche se non sarà facile convincere qualcuno a investire in un impianto in perdita da anni nonostante gli sconti energetici.

Claudia Sarritzu