I dati diffusi venerdi scorso e contenuti nel rapporto dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp) sono impietosi: mentre nei Paesi Ocse i salari dal 1991 ad oggi sono cresciuti del 32,5%, in Italia sono cresciuti di appena l’1%. In altre parole, lavoratrici e lavoratori italiani in trent’anni hanno perso un terzo del proprio potere d’acquisto rispetto ai colleghi degli altri Paesi Ocse.
Dati che, indirettamente, confermano la natura politica della decisione del Cnel di affossare la legge sul salario minimo, dal momento che la contrattazione collettiva – indicata dall’ente presieduto da Renato Brunetta come la soluzione – pare non funzionare.
Salari italiani fermi al palo e contrattazione inefficace: ecco perché serve il salario minimo
«Negli ultimi trent’anni in Italia c’è stato un impoverimento massiccio del mondo del lavoro – commenta ai nostri microfoni l’economista Simone Fana, autore di “Basta salari da fame” – È l’esito di politiche di svalutazione del lavoro e delle politiche economiche che hanno avuto l’unico obiettivo di ristrutturare il mercato del lavoro frantumandolo e disegnano un mercato del lavoro in cui quello precario era lo strumento attraverso cui le imprese dovevano competere».
Per l’economista, questi dati rivelano un’anomalia tutta italiana rispetto al contesto Ocse dove pure i lavoratori e le lavoratrici di altri Paesi hanno subito ristrutturazioni.
L’altro elemento che per Fana non si può non vedere è che la contrattazione collettiva non riesce più a garantire il potere d’acquisto reale dei salari, né con l’inflazione galoppante come negli ultimi due anni, ma nemmeno con un’inflazione bassa come in precedenza. «Non stiamo parlando solo dei contratti pirata, ma anche di contratti firmati dai sindacati più rappresentativi, che prevedono retribuzioni di 6 o 7 euro lordi l’ora – sottolinea l’economista – I sindacati non hanno più la forza della mobilitazione e per questo è necessaria la legge sul salario minimo, che è quel pavimento sotto il quale i contratti collettivi non possono più scendere perché altrimenti continueranno a scendere».
Nel circolo vizioso che si è generato, però, a rimetterci sono anche le casse dello Stato, penalizzate da un minore gettito dovuto proprio alla mancata crescita dei salari nella parte contributiva. Ciò genera una spirale fatta di tagli al welfare, ma porta ripercussioni anche sul sistema pensionistico, con la conseguenza che soprattutto le nuove generazioni saranno costrette ad andare in pensione più tardi e con assegni più magri.
Un problema, quindi, che si riverbera sul futuro, ma che ha i propri effetti anche sul presente. «I salari bassi sono un freno alla crescita dei consumi e della domanda, che è un elemento fondamentale per la crescita economica di un Paese», conclude Fana.
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