Era già noto cinquecento anni prima della nascita di Cristo, come testimonia la massima attribuita ad Eschilo: «In guerra la verità è la prima vittima». La guerra in Ucraina non fa eccezione e a soffiare forte è la propaganda di entrambe le parti coinvolte nel conflitto. Se la foto della “bambina col lecca-lecca e il fucile” ha fatto credere per qualche istante che anche i bambini ucraini fossero coinvolti attivamente nel conflitto, da parte russa vengono messe in campo diverse strategie di propaganda per confondere circa il reale svolgimento dei fatti. Tra queste c’è la strategia dei “crisis actors”, cioè sostenere che tanto le donne incinta in fuga dall’ospedale di Mariupol quanto i morti di Bucha fossero in realtà dei figuranti.

Propaganda di guerra, la teoria dei figuranti per giustificare atrocità

«Ci sono tre grandi filoni complottisti che ruotano attorno all’invasione russa dell’Ucraina» ci spiega Leonardo Bianchi, news editor di Vice Italia, autore del libro Complotti! e dell’omonima newsletter. «Il primo è quello negazionista, della guerra che non esiste. I soldati ucraini sono attori, le vittime pure. Sono quelle teorie che si basano sui filmati dei morti che resuscitano [in realtà ampiamente smentiti N.d.R.] et similia. Poi c’è il filone più aderente alla versione ufficiale del Cremlino, che ammette la guerra ma la considera “un’operazione speciale” volta a colpire solo determinati obiettivi. Quali siano questi obiettivi è un dato che cambia a seconda della teoria del complotto. Per i seguaci di Qanon, ad esempio, Putin starebbe agendo d’accordo con Trump per colpire Biden e il deep-state statunitense. Il terzo e ultimo filone è quello che si concentra sui biolaboratori. L’idea è che in Ucraina ci siano laboratori contenenti armi e sostanze pericolosissime, e Putin stia agendo per smantellarli e salvare il mondo».

Qual’è allora l’identikit del complottista, chiediamo. «Sicuramente queste teorie attecchiscono di più tra quanti si sentono vicini al modello politico putiniano» ci dice Bianchi «e anche i gruppi anti-vaccinisti – che vedono nell’idea dei biolaboratori la versione aggiornata di alcune teorie del complotto sulla covid – si stanno buttando a pesce sul tema. In generale, tutti i movimenti anti-restrizioni e no-vax creati durante la pandemia sono particolarmente permeabili a questo genere di complottismo». I fattori in gioco nell’avvicinamento alle teorie del complotto, però, sono tanti, e vanno dall’ideologia politica alle esperienze di vita, dall’età all’accesso a diversi canali informativi. «Per questo è difficile fare un’identikit del complottista medio. Il rischio è quello di ricadere nello stereotipo del mattoide che sta ai margini della società col cappello di stagnola in testa. In realtà chiunque è potenzialmente suscettibile a queste teorie, e per questo hanno tanto successo».

Ci sono stretti legami tra le teorie del complotto diffuse in Occidente e la versione dei fatti sostenuta ufficialmente dal governo russo, e sicuramente questi fenomeni – seppur ampiamente minoritari – aiutano la propaganda putiniana. «Ma attenzione, sarebbe troppo facile dire che tutte le teorie nascono dal Cremlino. In qualche caso è avvenuto persino l’opposto: la denuncia dei biolaboratori ucraini è apparsa prima in alcuni profili social legati a Qanon, e solo dopo è stata ripresa dal portavoce del governo russo. In altre circostanze è effettivamente Mosca a creare teorie del complotto, ma lo fa riprendendo stilemi tipici del complottismo occidentale e statunitense, cercando di arrivare ad un preciso pubblico al di là dei confini nazionali».

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Giornalismo embedded, il problema dell’informazione arruolata

Non è solo la Russia a mistificare la realtà con la propaganda. Oltre alla foto della bambina col fucile citata in precedenza, anche le autorità ucraine hanno spesso diffuso informazioni senza una scrupolosa verifica. Come nel caso delle armi al fosforo bianco che la Russia avrebbe utilizzato a Irpin, come da denuncia del sindaco della cittadina che non ha addotto sufficienti prove per dimostrarlo. Più che le parti in causa, che hanno un evidente interesse, è l’atteggiamento e i toni utilizzati dalla stampa sulla vicenda a destare preoccupazione.
In Italia, in particolare, nei titoli degli articoli che parlavano di armi chimiche il loro utilizzo dava dato per certo, senza spazio al dubbio o senza la pazienza della verifica.

Il problema è avvertito anche da chi fa informazione e cerca di farla nel modo più corretto possibile. Per questo motivo qualche giorno fa una decina di giornalisti, inviati di guerra, ha scritto una lettera aperta per prendere posizione su come il giornalismo italiano stia affrontando la copertura della guerra in Ucraina: male. Tra i firmatari troviamo Massimo Alberizzi (ex Corriere della Sera), Giampaolo Cadalanu (la Repubblica), Tony Capuozzo (ex Tg5), Alberto Negri (ex Sole24ore), Amedeo Ricucci (Rai) e Giuliana Sgrena (il Manifesto). «La propaganda ha una sola vittima: il giornalismo», scrivono.

E argomentano: «Noi la guerra l’abbiamo vista davvero e dal di dentro. Proprio per questo non ci piace come oggi viene rappresentato il conflitto in Ucraina, il primo di vasta portata dell’era web avanzata. Siamo inondati di notizie ma nella rappresentazione mediatica i belligeranti vengono divisi acriticamente in buoni e cattivi. Anzi buonissimi e cattivissimi. Ma non è così. Dobbiamo renderci conto che la guerra muove interessi inconfessabili che si evita di rivelare al grande pubblico».
In particolare, i media inondano il pubblico di notizie ma, secondo gli inviati di guerra, pochi verificano le notizie prima di pubblicarle. A suffragio della tesi viene citato, ad esempio, il caso del teatro di Mariupol, dove le vittime non sono state quante dichiarate subito dai media.

«Noi siamo solidali con l’Ucraina e il suo popolo – precisano – ma ci domandiamo perché e come è nata questa guerra. Non possiamo liquidare frettolosamente le motivazioni con una supposta pazzia di Putin. Notiamo purtroppo che manca nella maggior parte dei media (soprattutto nei più grandi e diffusi) un’analisi profonda su quello che sta succedendo e, soprattutto, sul perché è successo. Questo non perché si debba scagionare le Russia e il dittatore Vladimir Putin dalle loro responsabilità ma perché solo capendo e analizzando in profondità questa terribile guerra si può evitare che un conflitto di questo genere accada ancora in futuro».

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Lorenzo Tecleme e Alessandro Canella