Nonostante la richiesta dell’Fbi, la Apple ha rifiutato di decriptare l’iPhone del killer di San Bernardino, difendendo il diritto alla privacy degli utenti. Ma l’azienda di Cupertino è davvero la paladina della riservatezza degli utenti? Lo abbiamo chiesto all’informatico Renzo Davoli.
Negli Stati Uniti, ma non solo, sta facendo molto discutere la contesa tra Fbi e Apple in tema di privacy. Le autorità americane hanno chiesto all’azienda di Cupertino di decriptare l’iPhone del killer della strage di San Bernardino, che lo scorso 2 dicembre ha provocato 14 vittime.
L’azienda, però, ha opposto un rifiuto, sottolineando che permettere all’Fbi di accedere ai dati costituirebbe un “precedente pericoloso”.
La contesa si è spostata nelle aule di tribunale e, due giorni fa, un giudice di New York ha dato ragione all’azienda, sollecitando però un intervento legislativo che vada a colmare il vuoto presente negli Usa.
A schierarsi dalla parte della Mela sono state tutte le multinazionali tecnologiche, da Google a Facebook, da Whatsapp a Twitter, in una battaglia che, almeno in apparenza, è a difesa della privacy degli utenti.
Ma Apple è davvero una paladina del popolo? A spiegare perché non è così è Renzo Davoli, docente di Informatica all’Università di Bologna.
“Mi sembra che si guardi il dito e non la luna e che questa vicenda sia una grande manovra di marketing di Apple” osserva il professore. La domanda non è se l’Fbi possa avere accesso o meno ai dati di una singola persona, ma perché Apple possa avervi accesso.
“Non ci troviamo di fronte ad una reale protezione della privacy da parte di Apple – sottolinea Davoli – siamo di fronte ad una protezione da tutti tranne che da Apple”.
Il docente spiega che se si utilizzano altri ambienti, quelli di software libero, dove ci sono altri sistemi di protezione e dove le persone conoscono il sistema di protezione, questa vicenda non avrebbe avuto luogo, perché la privacy verrebbe tutelata da meccanismi che né l’Fbi né chiunque altro può violare, perché non sono meccanismi legati alla volontà di un’azienda.
Alla base di tutto, secondo Davoli, c’è il modello proposto da Apple ed altri colossi: chiedere all’utente di riporre fiducia a scatola chiusa nell’azienda, senza poter verificare.
Nessuna sorpresa, quindi, se Google, Facebook e gli altri si sono schierati dalla parte della Mela. “Stanno tutelando un mercato fatto di segreti – osserva il professore – ma pensare che nel segreto stia la sicurezza è una vera e propria favola“.
Per Davoli, invece, la sicurezza sta nell’effettiva non fragilità del metodo.
E siamo sicuri che quelli che oggi si sono erti a paladini della privacy, in realtà non violino già la nostra riservatezza per fini commerciali? “Se avessi prove definitive andrei da un magistrato – commenta Davoli – Non so se lo stiano facendo effettivamente, ma hanno tutti le possibilità di farlo. Già il fatto che dobbiamo basarci sulla buona fede di qualcuno, che non possiamo verificare e che ha tutti gli interessi a vedere quello che stiamo facendo, mi lascia sospettoso”.
Ascolta l’intervista a Renzo Davoli:
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