Il Consiglio UE, durante la riunione dei ministri delle politiche sociali, ha dato il via libera all’accordo con il Parlamento europeo sulle norme per migliorare le condizioni lavorative dei cosiddetti “gig-workers”, i lavoratori e le lavoratrici delle piattaforme digitali.
Un iter legislativo lungo e complesso quello che ha portato l’11 marzo all’approvazione della prima iniziativa al mondo volta a regolamentare il lavoro mediato dalle piattaforme digitali: la proposta della Commissione Europea risale infatti a due anni e mezzo fa e soltanto ora, dopo diverse modifiche e la ripetuta resistenza di vari Stati membri, tra cui l’Italia, si è finalmente arrivati all’accordo definitivo, grazie al “sì” di Grecia e Estonia.

La direttiva sui gig-workers: i contenenuti della regolamentazione europea

La prima novità introdotta dalla direttiva è la presunzione di rapporto dipendente, al fine di correggere lo status occupazionale dei lavoratori della gig-economy, subordinati alle piattaforme, ma considerati da contratto autonomi, e dunque sprovvisti delle tutele e dei benefici di cui avrebbero diritto. Con la presunzione legale si presume che se le condizioni di lavoro sono assimilabili a quelle del lavoro dipendente allora lo status legale sarà quello di lavoratore dipendente e sposta sul datore di lavoro l’onere della prova.
Il secondo provvedimento introduce invece dei limiti al tipo di dati e di informazioni che algoritmi e sistemi automatizzati utilizzati dalle piattaforme possono elaborare, tutelando così la privacy del lavoratore.

Una conquista quindi, esito di mobilitazioni dal basso e di anni dialogo tra società civile e istituzioni, come racconta Marco Marrone, autore di “Rights against the Machines! Il lavoro digitale e le lotte dei rider”, per il quale l’accordo rappresenta sicuramente una vittoria importante nella lotta e dei platform workers, ma anche il frutto di un grosso compromesso: nella direttiva originale infatti il meccanismo della presunzione era pensato per essere applicato utilizzando gli stessi criteri per ogni Paese dell’unione, mentre l’accordo approvato in ultima istanza lascia ai singoli Stati la facoltà di scegliere quali condizioni debbano essere soddisfatte per definire un lavoratore dipendente tale, in accordo con le legislazioni nazionali. Da un lato quindi storiche tutele, dall’altro il rischio che la mancanza di standard flessibili ma comuni intacchi l’efficacia dello strumento della presunzione, applicata in maniera differente da un Paese all’altro.

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Penelope Soglia