Ci sono alcuni meme che circolano in questi giorni che approcciano il caso Soumahoro in modo laterale. Quei meme non si concentrano sulla vicenda che ha travolto il deputato ed ex sindacalista, ma prendono in esame i meccanismi mediatici che lo hanno portato sotto i riflettori. In particolare, si sottolinea come una fucina di “personaggi” o “eroi” creati dal programma televisivo di Diego Bianchi, “Propaganda Live”, rilanciati di sponda da “L’Espresso” quando la direzione era in mano a Marco Damilano (ospite fisso della trasmissione), sia successivamente caduta in disgrazia.
È successo al chitarrista Roberto Angelini, musicista della “Propaganda Orchestra”, travolto dallo scandalo di una lavoratrice in nero nel suo ristorante. È successo all’anziana gloria della musica leggera italiana, Memo Remigi, che all’età di 84 anni ha palpeggiato in diretta Rai Jessica Morlacchi. È successo anche ad Enrico Letta, portato sul palmo di mano da Zoro e soci quando era “esule” in Francia, rendendolo un personaggio simpatico fino alla sua ascesa alla segreteria del Partito Democratico che, dopo la batosta elettorale, sta attraversando la fase più difficile della sua storia. E ora la vicenda di Soumahoro.
Il marketing politico e la subalternità agli strumenti della destra
Questa sorta di “maledizione di Propaganda Live”, in realtà, non ci parla di jella o malocchio, ma di meccanismi che hanno a che fare con la comunicazione e il marketing politico e che, alla luce dei fatti, rappresentano una fetta consistente del problema che la sinistra ha in Italia, al punto da renderla una specie prossima all’estinzione.
In particolare, il meccanismo è quello della costruzione del personaggio politico, del leader, emerso non attraverso la rappresentanza di istanze e movimenti sociali, ma tramite meccanismi mediatici.
Sia chiaro, da Mussolini in poi l’Italia ha mostrato una particolare vocazione per il leader. Lo era Berlinguer, lo era Craxi, lo sono stati tanti personaggi – in ogni caso tutti rigorosamente maschi fino all’arrivo di Giorgia Meloni – che hanno avuto diversi destini. Ciò che ha distinto i leader storici da quelli del presente, però, è esattamente il processo che li ha portati alla leadership.
Nonostante quello che si possa pensare di questo o quel personaggio politico del passato, nessuno dei leader della “vecchia guardia” lo è diventato perché catapultato sul palcoscenico grazie ai salotti televisivi o ai social. Tutti, nel bene o nel male, avevano una base sociale forte di cui erano rappresentanti e che ha permesso loro la scalata. Anche se non hanno ottenuto il potere, come nel caso di Luca Casarini e Vittorio Agnoletto, portavoce del movimento No Global, che alle spalle avevano centinaia di migliaia di attivisti.
Il punto di rottura di questi processi, in Italia, è individuabile in un personaggio che, anche se acciaccato, è ancora presente sulla scena: Silvio Berlusconi. Grazie ad un impero mediatico personale, l’ex Cavaliere si è imposto sulla scena politica fino a egemonizzarla. Ricordate il famoso discorso a reti (private, ma rilanciato anche da quelle pubbliche) pressoché unificate della sua “discesa in campo”? Una sorta di messaggio alla nazione che prima di allora era pura prerogativa del presidente della Repubblica.
Anche se economicamente non è vero lo slogan del “mi sono fatto da solo”, un elemento di verità c’è nell’assise politica: Berlusconi ha creato dal nulla un partito, che poi è stato al potere per circa un ventennio, grazie a meccanismi di marketing politico. Di ciò si sono accorti tutti e a più riprese è stata evocata una legge sul conflitto di interessi che non ha mai realmente visto la luce.
Fin tanto che l’accesso ai media, televisione in primis, rappresentava uno scoglio economico non indifferente, la prerogativa della costruzione mediatica del leader politico è rimasta nelle mani di pochi miliardari.
Molto, però, è cambiato con l’arrivo dei social network che, in un certo senso e apparentemente, ha “democratizzato” la visibilità. La tv generalista ha perso via via terreno, incalzata anche dalle piattaforme on demand, e i meccanismi della comunicazione politica, abbandonate da tempo le piazze, le sezioni e gli altri luoghi tradizionali, hanno modificato il modo stesso di fare politica.
Nonostante i partiti di massa subissero una costante e spaventosa emorragia di iscritti, riuscivano comunque ad affermarsi elettoralmente grazie alla propaganda sui media. Il caso più famoso è forse quello del 40% alle elezioni europee di Matteo Renzi.
Il caso di Renzi, però, non è solo un esempio, ma può essere considerato un emblema. Il leader politico del principale partito del centrosinistra è riuscito, attraverso una propaganda di stampo orwelliano, a cancellare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che non era riuscito a cancellare Berlusconi (fermato da una manifestazione di tre milioni di persone in piazza a Roma), spacciandola per una “riforma di sinistra”. La Cgil, che al tempo del governo Berlusconi aveva bloccato il Paese, non è riuscita o forse non ha voluto fermare il Jobs Act. E tra le ragioni (sicuramente non la principale) c’è la forza mediatica che Renzi aveva assunto, al punto che alcuni quotidiani scrivevano del presidente del Consiglio con un amichevole “Matteo”.
Cosa ci dice la “parabola Soumahoro”
Il caso Soumahoro ci riporta alla realtà. Non perché il sindacalista non abbia condotto delle vere e giuste battaglie, ma proprio perché oggi appare evidente quanto fragile sia la leadership costruita a tavolino con meccanismi di marketing politico.
A difesa di questa tesi basti dire che di sindacalisti afrodiscendenti che si battono per i diritti dei braccianti ne esistono parecchi in Italia. Alcuni hanno una storia sovrapponibile a quella del deputato, fino appunto a quando non sono intervenuti i media. È il caso di Yvan Sagnet, attivista camerunense e fondatore dell’associazione No Cap, che come Soumahoro si batte contro il caporalato nelle campagne italiane.
Sagnet, però, non è stato “scelto” (o forse si è rifiutato, non lo sappiamo) dal salotto di Propaganda Live e de L’Espresso per incarnare il leader afrodiscendente, istruito, con un buon eloquio che rappresentasse l’antagonista di Matteo Salvini, come appunto è stato creato il “personaggio Soumahoro”. Eppure anche Sagnet gira l’Italia in lungo e in largo per portare avanti la causa contro lo sfruttamento.
Questa è una risposta anche a chi, in queste ore, evoca il razzismo nel trattamento riservato a Soumahoro. Sicuramente c’è molto razzismo in come la destra ha approcciato il caso, ma c’è anche del razzismo introiettato in altri ambienti. Così come in Italia c’è ancora troppa mentalità coloniale, anche in quei movimenti che si definiscono antirazzisti senza però lasciare mai il microfono a chi realmente subisce le discriminazioni.
Proprio in un’ottica antirazzista, cioè di uguale trattamento indipendentemente dal colore della pelle, non bisogna fare sconti a Soumahoro, che da un certo punto in poi ha utilizzato una causa collettiva per la propria carriera personale. Inseguendo i meccanismi della notorietà, si rischia di legare al proprio destino quello della causa che si rappresenta (ce lo ha insegnato il passamontagna del subcomandante Marcos), che invece deve poter proseguire anche se “cade” il portavoce. Dall’altro, attirando su di sé tutti i riflettori, si rischia di “glamourizzare” la lotta, finendo per oscurare o far passare in secondo piano la causa stessa.
Non bisogna però fare sconti nemmeno ai partiti che hanno candidato Soumahoro, che ormai incapaci di esprimere una base elettorale forte, ma bramosi di entrare comunque in Parlamento, hanno utilizzato gli stessi meccanismi del marketing politico creati dalla destra e hanno usato il sindacalista e la sua visibilità per accaparrarsi consensi elettorali.
Questa vicenda, dunque, segna la subalternità della sinistra parlamentare ai linguaggi e alle strategie utilizzate dalla destra, abdicando al compito – certo, faticosissimo – di costruire una reale alternativa basata sulla forza della partecipazione di massa.