È di questi giorni la notizia di una bocciatura di massa al pre-test di microbiologia, corso tenuto dal Professor Roberto Burioni all’università San Raffaele di Milano. I giornali, che hanno la sempre più diffusa abitudine di titolare a partire dall’espressione “è polemica per…” “è polemica su…” riprendono questo fatto, diffuso da un video Tik Tok di uno degli studenti bocciati, come fosse una notizia. Lo è se pensiamo che le polemiche sono sempre più fonte di interesse e click, quasi quanto le notizie vere. Ma vale la pena analizzare questa particolare vicenda che ci apre uno spaccato su una questione sottovalutata ma fondamentale.
Il professor Burioni, “virostar” ai tempi del Covid e presenza fissa da Fazio a Che Tempo Che Fa, boccia 398 studenti su 410 – un numero niente male – e commenta in una mail ai propri studenti i risultati del test, soffermandosi sul fatto che ben “il 17 per cento dei partecipanti a questo appello ignorava l’agente eziologico della scarlattina e che il 44 per cento non ha saputo indicare come fare una diagnosi di influenza”. La “polemica” ha dunque come bersaglio proprio il Professor Burioni, che a detta dei commentatori non sarebbe un buon Professore. Se solo 22 su 420 studenti sono risultati idonei, infatti, il problema sarebbe di chi ha tenuto il corso e non di chi lo ha frequentato.
Aldilà delle questioni più strettamente tecniche, dovremmo renderci conto che un test universitario fallito da una classe intera non è una notizia. Che un video Tik Tok di uno studente non è una fonte e che i commenti a questa vicenda possono servirci da termometro di una questione più ampia. Quella del mondo universitario.

L’università della performance

L’università viene sempre più immaginata (anche perché è poco vissuta dagli italiani, con uno tra i più bassi livelli di istruzione d’Europa) come un servizio per gli studenti piuttosto che come un ambiente di prova, crescita e percorso. Nella cultura dell’affermazione e dell’autorealizzazione, gli studenti sentono di dover mirare al massimo risultato possibile più che all’esperienza e alla crescita personale da maturare negli anni di studio. Il racconto tossico dell’università come di una gara da concludere il prima possibile e con il miglior risultato possibile -numericamente parlando- è allo stesso tempo il racconto dell’università come industria della cultura e fabbrica di diplomi. I notiziari sono pieni di “laureati in tempi record” e, al tempo stesso, di “suicidi a un passo dalla laurea”, in una retorica che misura il successo e l’insuccesso personale, e non solo accademico, degli studenti in base ai tempi e alle cifre iscritte sulla pergamena di laurea. Quantificato e misurato con minuziosa attenzione, il percorso universitario stenta quindi ad essere rappresentato per quello che dovrebbe essere: un cammino di crescita, prova, sfida e misura di sé stessi con ciò che ancora non si conosce.

Insegnami a fallire

Anestetizzati all’idea del fallimento e del rifiuto rischiamo di rimanere incapaci di accettare una caduta e imparare da essa. Di non capire il valore e il significato di una bocciatura, di un rifiuto, di un “no” detto in qualunque contesto. Sì perché una società tutta volta al positivo è una società fragile e acritica, ma allo stesso tempo potenzialmente violenta. Essere incapaci di accogliere in sé ciò che è negativo è un deficit emotivo che è difficile da colmare e che in molti casi degenera in rabbia e violenza. La società tutta grida che ce la dobbiamo fare sempre, subito e per forza, ma quando noi stessi siamo convinti che sia colpa di qualcun altro se non ce l’abbiamo fatta, allora, è proprio il tempo di essere bocciati e di ripresentarsi al prossimo appello.