L’escalation militare in Palestina ha prodotto tanto orrore. Orrore, senza dubbio, per il bilancio delle vittime: 250 morti, di cui 66 bambini, quasi interamente civili palestinesi, in particolare a Gaza. Orrore, però, lo ha prodotto vedere anche un’informazione mainstream e una classe politica, soprattutto in Italia ma non solo, completamente succube delle veline israeliane, completamente scollata dalla realtà dei fatti e ideologicamente orientata.
A Roma abbiamo visto i leader dei principali partiti rappresentati in Parlamento solidarizzare con gli aggressori in un presidio sionista, salvo qualche tardiva e imbarazzata marcia indietro, come quella di Enrico Letta, quando la base del partito ha protestato.

In mezzo a notizie da voltastomaco, però, c’è stato qualche barlume di speranza ed umanità grazie ad iniziative dal basso, agite da lavoratori portuali e da attivisti che, in Italia come nel Regno Unito, sono sembrati l’unico argine alla barbarie ed hanno messo in campo azioni di disobbedienza civile per il rispetto dei diritti umani.
Nonostante costituzioni, leggi e convenzioni internazionali, infatti, gli Stati sedicenti democratici continuano ad aggirare e infischiarsene dei diritti umani e li sacrificano in nome del profitto o degli interessi contingenti, come la vendita di armi a Paesi in guerra o accordi con dittatori. Nella civile Europa del diritto, a ben vedere, portuali e attivisti sono rimasti gli ultimi difensori dell’umanità.

La lotta dei portuali per i diritti umani e contro la guerra

Il 16 maggio scorso i lavoratori del porto di Livorno hanno ricevuto informazioni dai colleghi genovesi dell’Unione Sindacale di Base e del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali circa l’arrivo nel porto toscano della nave Asiatic Island. Quest’ultima avrebbe dovuto imbarcare un carico composto da munizioni ed esplosivi diretti ad Ashdod, in Israele. I portuali di Livorno si sono rifiutati di essere complici del massacro che il governo di Benjamin Netanyahu aveva ordinato a Gaza ed hanno dato vita ad una protesta che ha scongiurato il carico.
Nove giorni più tardi, il 25 maggio, sono stati i portuali di Ravenna ad entrare in azione. Il 3 giugno la nave Asiatic Liberty avrebbe dovuto attraccare nel porto romagnolo per caricare armi sempre dirette ad Ashdod. Filt-Cgil, Fit-Cisl e Uiltrasporti hanno proclamato uno sciopero per quel giorno, provocando la rinuncia al carico da parte dell’armatore.

La lotta politica ed etica dei portuali di Livorno e Ravenna ha un precedente che risale a due anni prima. Il 20 maggio del 2019, infatti, erano stati i portuali di Genova, i cosiddetti camalli, a scioperare ed impedire alla nave Bahri Yambu di caricare materiale bellico destinato all’Arabia Saudita, Paese impegnato nella guerra in Yemen che tra marzo 2015 e novembre 2020 ha provocato 18.557 vittime civili e 4,3 milioni di sfollati.
Per la protesta del 2019 cinque attivisti e portuali di Genova sono finiti sotto inchiesta con accuse pretestuose e gravi, come l’associazione a delinquere e l’attentato alla sicurezza dei trasporti, insieme ad imputazioni semplicemente ridicole che qualificano la natura dell’indagine, come l’accensione di fumogeni.

Mentre l’ex premier Matteo Renzi intrattiene rapporti professionali e amicali col principe saudita Bin Salman fautore, secondo il senatore italiano, di un nuovo “rinascimento”, la procura di Roma prosegue le indagini, scaturite da segnalazioni delle organizzazioni pacifiste, circa l’utilizzo da parte dell’Arabia Saudita di bombe prodotte in Italia ed utilizzate nel massacro di civili proprio in Yemen.
Il caso risale al 2016 e nasce dal ritrovamento di residui bellici che riconducevano a materiale prodotto nello stabilimento sardo della Rwm Italia, azienda produttrice di ordigni collegata alla tedesca Rheinmetall. Eppure, in Italia è in vigore la legge 185 del 1990 che impedisce di inviare armi a Paesi in stato di conflitto armato.

Boicottaggio e solidarietà, le azioni degli attivisti per la Palestina

Se la lotta dei portuali si fonda su un aggregante che anni fa sarebbe stata definito “coscienza di classe”, anche tra i movimenti sociali si registrano azioni di boicottaggio o di solidarietà che appaiono ben più nobili delle posizioni assunte dai partiti e dai governi europei.
Il 19 maggio, in Gran Bretagna, alcuni militanti di “Palestine Action” sono saliti sul tetto di un capannone della UAV Tactical Systems, sussidiaria israeliana della Elbit Systems e della società aerospaziale francese Thales, a Leicester denunciando le azioni di Tel Aviv e le complicità di Londra con la colonizzazione e con l’apparato bellico israeliano. «Pur di non scendere dal tetto della fabbrica di droni che avevano bloccato – racconta in un articolo Nena News – gli attivisti di “Palestine Action” hanno bevuto l’acqua piovana visto che le scorte di cibo e acqua a disposizione erano terminate e la polizia aveva fermato e denunciato altri due compagni che tentavano di rifocillarli».

Oltre al boicottaggio nei confronti di Israele, però, stanno trovando spazio anche iniziative di solidarietà nei confronti della popolazione civile palestinese, in particolare quella di Gaza, colpita duramente dall’aggressione bellica di Tel Aviv. Una di queste è #MedForGaza, una raccolta di medicinali da inviare nella Striscia per aiutare a curare i feriti e sopperire alla scarsità di forniture dettata anche dall’embargo a cui Israele costringe i gazawi. Nel solo imolese, uno dei punti italiani dell’iniziativa, in pochi giorni sono stati raccolti medicinali e farmaci per un valore di circa 2600 euro, che ora verranno inviati attraverso Music for Peace.

Mentre la politica istituzionale ha operato un’operazione lessicale orwelliana, promuovendo di fatto la guerra con vendita di armi e finanziamenti a regimi autoritari in nome della pace, dal basso, in particolare da movimenti e classe lavoratrice si lavora concretamente per i diritti umani, primi fra tutti quello alla vita e alla dignità dei popoli oppressi.
Mentre Carlo Calenda, come uno sciacallo, faceva campagna elettorale per le comunali di Roma sostenendo – parole sue – il sionismo in quanto unica democrazia in Medio Oriente al presidio ebraico di Roma, lontano dalla luce dei riflettori donne e uomini di pace si adoperavano, a volte incorrendo nella repressione giudiziaria, per l’affermazione dei più basilari principi di umanità.