La pandemia non è un ostacolo, semmai è una ragione in più per Non Una Di Meno per dare vita ad una nuova edizione dello sciopero femminista e transfemminista dell’otto marzo. Da alcuni anni, infatti, il movimento ha risignificato la Giornata Internazionale della Donna, strappandola dalla sussunzione commerciale e caratterizzandola come giornata di lotta contro la violenza sistemica patriarcale che si riversa su donne, identità non conformi e migranti nel mondo.
Proprio durante la pandemia, infatti, sono apparse alla luce del sole e si sono acuite le discriminazioni e le disuguaglianze di genere, al punto che lo sciopero, secondo le attiviste stesse, è diventato essenziale.

Otto marzo, le ragioni dello sciopero

L’anno pandemico che abbiamo vissuto è stato un susseguirsi di dimostrazione delle discriminazioni di genere che attraversano tutto il pianeta.
Per restare in Italia, basterebbero i dati diffusi ad inizio febbraio dall’Istat per fotografare la situazione. Delle 101mila persone che hanno perso il lavoro lo scorso dicembre , ben 99mila sono donne. Una lettura più approfondita della statistica certifica che, nonostante il blocco dei licenziamenti, le donne abbiano perso il lavoro perché a loro vengono praticate le forme contrattuali più precarie e soggette a maggior sfruttamento e su di loro si riversa ancora quasi interamente il peso del lavoro di cura, che spesso le costringe ad abbandonare la professione.

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Femminista ed essenziale: lo sciopero dell'8 marzo

Non va meglio per le donne che lavorano, dal momento che, durante la pandemia, secondo i dati dell’Inail il 70% dei contagi Covid sul lavoro riguardano le donne. Anche questo dato dimostra che ad ammalarsi di più è chi svolge le professioni “essenziali” meno qualificate, dalla sanità alle pulizie.
Per le lavoratrici, del resto, le misure emergenziali messe in campo dal governo non alleviano di fatto il peso sopportato dalle donne anche durante la pandemia. Se le misure restrittive hanno portato alla chiusura delle scuole, la possibilità di usufruire di permessi per restare a casa ad assistere i figli impegnati nella didattica a distanza, infatti, procura alle donne una perdita di reddito. «Si parla di congedi parentali pagati al 50% – sottolinea Non Una Di Meno – ma il lavoro non si dimezza, al contrario raddoppia e che vanno sempre a discapito delle donne perché se hanno un reddito, è quello più sacrificabile in termini di bilancio familiare».

L’essere costrette a restare a casa per le donne rappresenta un potenziale pericolo, dal momento che la quota maggiore della violenza di genere si consuma dentro le mura domestiche. Anche durante il lockdown e non senza difficoltà, il lavoro dei centri antiviolenza è continuato incessantemente. Cionostante i femminicidi sembrano registrare un picco, nonostante le statistiche generali sugli omicidi, anche per via delle restrizioni sanitarie, abbiano registrato una sensibile diminuzione.
«Tredici donne sono state ammazzate nei primi tre mesi del 2021 – spiega il movimento femminista – Nessuna risorsa è stata destinata alla prevenzione della violenza maschile e di genere cresciuta esponenzialmente nell’ultimo anno, eppure le case dove quella violenza si consuma sono l’unico luogo in cui ci è concesso di stare».

Nel Piano antiviolenza presentato da Non Una Di Meno ormai alcuni anni fa, centrale rimane la richiesta di un “reddito di autodeterminazione”: uno strumento che aiuterebbe le donne ad intraprendere percorsi di uscita dalla violenza, spesso ostacolati proprio dalla difficoltà a costruirsi un’autonomia economica.
La necessità di dotarsi di strumenti efficaci contro la violenza strutturale è ancora più urgente in questo contesto e l’arrivo del Next Generation Eu, altrimenti detto Recovery Fund, potrebbe essere un’occasione. Al momento, però, la composizione del governo Draghi non lascia ben sperare.
Già in occasione dello scorso 25 novembre, Non Una Di Meno aveva sottolineato il punto: «pretendiamo che le risorse del Recovery Fund vadano a finanziare sanità e scuola pubbliche, a garantire un reddito per l’autodeterminazione, un salario minimo europeo e un welfare veramente universale e non familistico».

Ponendosi come intersezionale, il movimento femminista chiede anche l’introduzione di un permesso di soggiorno europeo svincolato dal lavoro e dalla famiglia, in modo che le persone migranti possano essere libere e non continuare a dipendere da relazioni famigliari entro cui spesso si consuma la violenza.
La dimensione internazionale, del resto, è quella in cui Non Una Di Meno si è sempre collocata. In questo senso, il movimento femminista ha registrato, nel mondo, vittorie (come quella in Argentina sull’aborto) e lotte delle donne (come quelle in Polonia o quella delle migranti ucraine o rumene arrivate in Austria) che segnano un’interconnessione globale.

L’organizzazione femminista dello sciopero

Oltre alle restrizioni giustificate dalla pandemia, lo sciopero femminista dell’otto marzo deve misurarsi con altri ostacoli. Da un lato negli anni si sono manifestate le difficoltà dei sindacati confederali, almeno nelle sue componenti apicali, ad appoggiare l’agitazione e a fornire copertura sindacale.
Dall’altro, la Commissione di Garanzia ha negato al comparto della scuola la possibilità di scioperare perché una settimana prima è stato proclamanto uno sciopero di categoria. «Le limitazioni al diritto di sciopero sono sempre più intense – scrive Non Una Di Meno – e l’8 marzo colpiranno proprio le insegnanti che nell’ultimo anno hanno dovuto fare i salti mortali per garantire la didattica, a distanza o in presenza, e che ora per l’ennesima volta sono travolte dalla necessità di riorganizzarla».

A differenza dell’anno scorso, quando tutto il Paese si trovava in lockdown, lo sciopero dell’otto marzo di quest’anno vede un situazione diversificata da contesto a contesto.
Bologna, ad esempio, si trova nuovamente in zona rossa, ma il movimento femminista fa sapere che «avremo il nostro 8 marzo, perché mai come ora lo sciopero femminista e transfemminista è essenziale. Questa volta nessuno può permettersi di dire che si tratta di un’emergenza».
Nei giorni scorsi, in preparazione della mobilitazione, le attiviste si sono attrezzate sul piano simbolico. Da un lato hanno redatto un vademecum dello sciopero, dall’altro hanno invitato quante e quanti vogliano partecipare a inviare messaggi vocali, appendere qualcosa di fucsia (il colore del movimento) alla finestra o indossando abiti neri con qualcosa di fucsia se, per il tipo di lavoro che si svolge, non sarà possibile aderire attivamente allo sciopero.

ASCOLTA L’INTERVISTA AD ALINA E LAURA DI NON UNA DI MENO BOLOGNA: