La musica è fatta di suoni, ma anche di tante storie che la circondano, che la precedono e la seguono. E che meritano di essere raccontate. Per farlo, cosa c’è di meglio che affidarsi a storiche e storici, che già animano una trasmissione sulle nostre frequenze?
Oggi, giovedì 8 aprile, all’interno di Radical Pop inaugura una nuova rubrica curata da Vanloon. Alle 16.30, ogni settimana, potrete ascoltare “Note a pie’ di pagina”, uno storytelling storico attorno al mondo della musica.

Note a pie’ di pagina: Cop Killer di Body Count

Nella nota a piè di pagina di oggi vi raccontiamo la storia di Cop Killer, il primo album della band crossover Body Count, entrato nella storia non per le sue qualità musicali, quanto per essere stato il primo e unico caso negli Stati Uniti di un disco ufficialmente ritirato dal mercato e che quindi, a tutt’oggi, nella sua versione originale non può essere acquistato in un negozio. Cop Killer dimostra che esiste qualcosa di più della censura, soprattutto in un Paese complesso e contraddittorio come gli Stati Uniti, che a fianco delle grandi sperimentazioni e le grandi innovazioni culturali vede anche il peggio dell’oscurantismo.

Cop Killer esce nei negozi il 10 marzo del 1992 ed è uno dei vari esempi di quell’intuizione degli impresari musicali statunitensi che portarono alla nascita di un fenomeno determinante come lo fu il crossover.
Nato come occasione di rilancio di artisti che avevano fidelizzato un grosso numero di ascoltatori nel decennio precedente, con il crossover si volevano amalgamare il cantato ritmato e rabbioso dell’hip hop che aveva da tempo superato i confini dei ghetti delle grandi città, ma continuava ad essere identificato con la gioventù nera e le sonorità ruvide del metal, i cui fan erano invece esclusivamente i giovani maschi bianchi.
Far incontrare band come Anthrax e Public Enemy, ad esempio, aveva anche la funzione di permettere alle crew hip hop di girare fra club e festival che avevano iniziato ad avere qualche problema ad ospitarle, soprattutto per la vera e propria paranoia che si stava scatenando con a nuova generazione di rapper della West Coast.

Dietro alle fusioni a freddo immaginate dalle major c’era qualcosa di più profondo e reale: gli Stati Uniti erano attraversati da un malcontento sociale trasversale ai gruppi etnici, figlio delle privatizzazioni e dei tagli alla spesa pubblica dell’era Reagan, che si esprimeva in un diffuso odio nei confronti delle forze dell’ordine, unico presidio che lo stato aveva lasciato in comunità condannate alla marginalità. E la polizia non faceva nulla per farsi amare, diciamo.
Nel 1991 i principali network avevano trasmesso le agghiaccianti immagini del pestaggio del tassista Rodney King da parte di alcuni agenti, che poi sarebbero stati pienamente assolti.
Ecco, fermiamoci a pensare: se si fosse sviluppato un genere musicale capace di unire la gioventù bianca e quella nera al grido di Fuck tha police la miscela avrebbe potuto essere esplosiva!

ASCOLTA COP KILLER DEI BODY COUNT:

I Body Count sembravano essere lì apposta per soddisfare questo tipo di desiderio. Provenienti proprio da Los Angeles, la città che stava facendo emergere talenti come NWA, Snoop Dog e Dr Dre, surclassando il predominio di New York nell’Hip hop americano, il gruppo ruotava attorno alla figura di ICE T, uno dei volti del gangsta rap e il chitarrista Ernie C; neanche farlo apposta, il nome del gruppo doveva il proprio nome ad una canzone del frontman ispirata al Body Count, il conto dei corpi effettuato dagli agenti sul luogo di una sparatoria. E attorno al gruppo l’atmosfera divenne immediatamente esplosiva: la partecipazione dei Body Count alla celebre tournée del LolaPalooza, con diecimila giovani, prevalentemente bianchi che scandivano assieme ad Ice T il ritornello della title track Die, die, die, pig, die! Fuck the police!, muori sbirro e fanculo alla polizia scatenò un vero e proprio inferno.

Immediate furono le proteste e gli inviti al boicottaggio da parte dei sindacati di polizia, associazioni della destra religiosa e conservatrice, fra cui spiccava la Parental music re source centre, che negli anni Ottanta aveva già intentato battaglie contro il metal, blasfemo e satanista, e poi contro l’hip hop, volgare e violento. Di pari passo si andava nuovamente formando uno schieramento di convinti sostenitori della libertà d’espressione che erano già scesi in piazza nel 1989, quando il vicedirettore dell’FBI Milt Ahlerich aveva inviato all’etichetta Priority records una lettera in cui esprimeva sua preoccupazione e il suo sdegno per il pezzo dei NWA Fuck tha police che sapeva molto di censura.

Però attorno ai Body Count, si faceva proprio fatica a formare una vera ondata di indignazione: Fuck tha police gridava rabbia per lo strapotere e la brutalità della polizia in una zona disagiata come Compton e si limitava a mandare i poliziotti a fanculo, ICE T parlava di sparargli!
Il problema non poteva essere quello comunque: Eric Clapton era entrato nella top ten americana con la cover di “I shot the sheriff” di Bob Marley, la band hardcore MDC aveva costruito un’etichetta internazionale con il primo scioglimento dell’acronimo in Milions of dead cops e nessuna delle loro produzioni venne fatta oggetto di una campagna mediatica così intensa e, qualora fossero stati oggetto di pressione, chiunque avrebbe invocato il primo emendamento.

Cop Killer era infatti percepita come la più forte rappresentazione di quel filone gangasta che aveva privato il rap di qualunque connotazione politica e di emancipazione, mettendo invece al centro l’orgoglio di essere criminali with attitude, ovvero con la predisposizione alla delinquenza, agitando come una bandiera la violenza di strada, il sessismo ed il machismo.
Una combinazione perfetta per la destra conservatrice, soprattutto se c’è aria di elezioni come nel 1992. La campagna mediatica e giudiziaria fu per davvero intensa e venne condotta con un’aggressività crescente: intervenne il presidente della Repubblica George Bush invitando anche a togliere investimenti alle case discografiche, 60 deputati denunciarono la casa discografica che aveva promosso Cop Killer, l’agenzia fiscale federale annunciò un’indagine straordinaria sui conti correnti del rapper e degli agenti governativi arrivarono a prelevare i figli di ICE T da scuola per interrogarli.

Proprio questo clima scosse molte voci critiche: in ballo c’era come dicevamo c’era il Primo emendamento che tutelava la libertà d’espressione, e del resto ICE T non aveva ucciso nessuno, si era limitato a scrivere una canzone di fantasia in cui un motociclista decideva di sfogare la propria rabbia per essere stato brutalizzato durante un fermo, come del resto era realmente successo a Rodney King. Ed è proprio su questo punto che Ice T decise di puntare il dito: la posta in gioco non era la libertà di espressione ma la possibilità di raccontare la realtà.

Fatto sta che il disco venne ritirato e ristampato senza la title track COP Killer. Per la destra, gli Stati Uniti potevano dormire sonni tranquilli, la calma era rientrata. Sarebbe stato bello vedere le loro facce quando, con una canzone vietata ed estromessa per sempre dai negozi di dischi, di lì ad un paio di mesi, proprio a Los Angeles sarebbe scoppiato il riot più lungo della storia americana.
La storia del primo disco dei Body Count non può che rimandare alla storia più recente del rapper catalano Pablo Hasel, che in questo momento si trova ancora in carcere per le sue canzoni e a cui va la nostra solidarietà.

ASCOLTA NOTE A PIE’ DI PAGINA: